La Stampa, 4 agosto 2024
Prigionieri dell’ispirazione
Credo che l’arte, nelle sue varie forme, sia la più alta espressione dello spirito umano. Credo che siamo uniti nell’anelito di trascendere il mero finito e l’effimero; di partecipare a qualcosa di misterioso e di collettivo chiamato “cultura”, e che in noi umani quest’anelito sia altrettanto forte dell’impulso a perpetuare la specie. Attraverso il locale o il regionale, attraverso le nostre voci individuali, lavoriamo per creare un’arte che parli ad altri i quali nulla sanno di noi. Proprio da questa nostra vicendevole obliquità nasce un’inattesa intimità. La voce individuale è la voce collettiva. La voce regionale è la voce universale. Guardo questo raduno di filosofi, scrittori, professori, intellettuali, e vedo una molteplicità di volti. Sebbene siamo quasi tutti estranei gli uni agli altri, siamo legati dal comune interesse per la socratica “vita di ricerca”. Tra noi le somiglianze sono più sorprendenti delle differenze, perché tutti condividiamo una caratteristica decisiva degli esseri umani: la capacità d’ispirazione. Cioè siamo tutti qui a quest’ora perché, in certi momenti della nostra vita, fin dalla nostra adolescenza o forse addirittura dall’infanzia, siamo stati ispirati: da qualcosa, a fare qualcosa. L’ispirazione: un’idea, o più che altro un’emozione travolgente, una scossa di eccitazione, un’ondata di energia che sfocia in una sorta di creazione. L’ispirazione: potrebbe essere l’illuminazione di un momento, una specie di fulmine; fugace come un fiammifero acceso; eppure, senza di essa, non si può iniziare a lavorare, si può avere il desiderio di lavorare, ma non il “piano”, cioè quel sentimento elettrizzante che vi sia uno scopo, un senso.
L’ispirazione: una parola che nessuno è in grado di definire chiaramente. Eppure “ci è accaduto” qualcosa (come se fossimo passivi), “ci è venuto in mente” qualcosa (come se provenisse da una fonte esterna) che ci ha portato a intraprendere un progetto: una poesia, un racconto, un memoir, un libro intero e anzi, per alcuni, una sequenza di opere collegate, un’intera vita. L’ispirazione: un termine astratto per indicare un’esperienza che è sempre singolare, unica. Arduo, infatti, è dire perché si è ispirati da una conversazione fuori dal coro, da un’opera d’arte, da un brano musicale, dallo scorcio di un fiume, da «folate d’emozioni su strade roride nelle notti autunnali» (Wallace Stevens, Mattino domenicale). L’ispirazione: talmente fondamentale per la nostra vita, come l’ossigeno, come l’acqua, che siamo portati a darla per scontata, finché non ci rendiamo conto che ci sono persone per cui l’ispirazione – quel tocco d’inatteso, di magico, di unico – non è un dato significativo. Anche noi, come i primati nostri cugini, siamo creature che si dilettano di imitare; ma la mera imitazione non spiega l’originalità o l’inventiva. Sappiamo tutti che se eliminassimo l’ispirazione dalla nostra vita, questa ne risulterebbe radicalmente sminuita.
Quali sono dunque le radici di ciò che intendiamo per ispirazione? L’argomento mi affascina da molto tempo, giacché la fantasmagoria della personalità umana è oggetto della mia indagine fin dai miei primi romanzi, cioè dagli anni Sessanta.
Che cosa significa restare imprigionati da un’immagine, da una frase, da un mood, da un’emozione? «Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio e questo sembrava ripetercela inesorabilmente» (Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche). Quasi tutti gli artisti seri e produttivi sono ossessionati dal loro materiale: questa è la forza galvanizzante della loro creatività, la loro motivazione. Non è, né può essere, un’ossessione del tutto cosciente o volontaria: è qualcosa che sembra capitarci come dall’esterno, per quanto mestiere ci investiamo, per quanto numerosi gli appunti e i fogli di lavoro che impieghiamo. Ecco allora il cri de cœur di Emily Dickinson:
Per Chi i Mattini stanno per le Notti,
Cosa devono le Mezzanotti – essere!
La maggior parte delle poesie Emily Dickinson che veneriamo, e che ci si sono incise dentro, sono grida del cuore meravigliosamente espresse e delicatamente calibrate, formulazioni di cose indicibili fino al punto in cui l’ispirazione poetica diventa qualcosa di terrificante:
Venne la Notte di quel primo Giorno,
E grata di aver
Tanto – sopportato –
All’Anima chiesi di cantare –
Ma lei rispose che le Corde erano spezzate –
L’Archetto – in Atomi dissolto –
Così a ripararla mi ci volle
Fino alla Mattina del giorno seguente –
E poi – un Giorno immenso
Quanto due Ieri,
Riversò il suo orrore sul mio volto –
Fino a bloccarmi lo sguardo –
Il mio Cervello – prese a ridere –
Balbettavo – come un idiota –
E sono Anni ormai – ma da quel Giorno –
Il mio Cervello ridacchia – ancora.
E Qualcosa di strano – dentro –
La Persona che ero –
E quella che sono – non sembrano la stessa –
Potrebbe questa essere – Follia?
È questa la voce stessa dell’interiorità, della compulsività, dell’ “anima al Calor Bianco” di cui Dickinson parla altrove.
Sopra ogni altra cosa, Emily Dickinson è stata ispirata dalla sua vicinanza dalla sua intimità – con la morte: le singole, fattuali morti di suoi familiari, molti dei quali accudì nei loro ultimi giorni. Dickinson è la nostra grande artista della perdita:
Un Cervo colpito – salta più alto –
Ho sentito dire dal Cacciatore –
È solo l’Estasi della morte –
E poi la Brughiera tace!
«Da dove ti vengono le idee?»: è una domanda che viene posta spesso e alla quale di rado rispondiamo con qualche convinzione o sincerità. Raramente, poi, la risposta è: «Da un sogno».
Il breve, ellittico racconto Sole e luna, scritto da Katherine Mansfield a trent’anni, sembra sia scaturito praticamente tutto intero da un sogno. Lirico e fluido come il ghiaccio che si scioglie, Sole e luna – luminoso esempio d’impressionismo letterario – suggerisce l’ossessionante evanescenza di un sogno. Come scriveva Mansfield nel suo diario il 10 febbraio 1918: «Stanotte ho sognato un racconto breve fin nel titolo, che era Sole e luna. Era molto leggero. L’ho sognato tutto intero… C’erano dei bambini. Mi sono alzata alle 6:30 e ho buttato giù qualche appunto sapendo che altrimenti sarebbe svanito... Non ho sognato di leggerlo, no: c’ero dentro, ne facevo parte, e la vicenda ruotava attorno a una me invisibile. Ma la protagonista non ha più di cinque anni. Nel sogno ho dunque visto una tavola da pranzo attraverso gli occhi di una cinquenne. Era terribilmente strano… specie quel piattino di gelato mezzo sciolto».
Il racconto della Mansfield, malgrado la delicata filigrana, è una glaciale profezia della distruzione dell’innocenza infantile. Il «piattino di gelato mezzo sciolto» è una casetta di gelato che si è squagliata in mezzo ai detriti di una grossolana festa per adulti dalla quale i bambini sono esclusi.
La maggior parte della narrativa di Katherine Mansfield emana quest’aria di effervescenza onirica. Una scrittura rapida, guidata da emozioni inconsce… Ricorda da vicino quanto disse Samuel Beckett a proposito di Aspettando Godot: «Tutto è nato tra la mano e la penna». Il testo cioè sembrava essersi scritto spontaneamente, penna alla mano. Del resto, tutta l’opera di Beckett, dai primi, impavidamente eccentrici romanzi (Molloy, Malone muore, L’innominabile) alle sue grandi opere più rappresentative (Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, Giorni felici) sembra scaturire da quella penna talismanica. Il mezzo con cui l’ispirazione si trasforma in arte è esso stesso l’ispirazione. La (singolare) calligrafia dello scrittore/poeta, non dattilografata, non dettata, ma scaturita dalla sua propria mano, unica come le nostre impronte digitali.
Ernest Hemingway, poco più che ventenne, insofferente alla prosa troppo elaborata del XIX secolo e dei suoi predecessori più rispettati (fra cui Henry James), si è fatto strada in modo intuitivo fin dentro i brevi racconti, scarni e minimalisti, della sua prima raccolta, intitolata In Our Time (1925). Il tutto scrivendo a mano dapprima lentamente e con difficoltà, poi con un’energia e un’ispirazione sempre più incalzanti, fin quando capiva di avere scritto la sua “unica frase vera”, solitamente di tono dichiarativo: quella sarebbe stata la prima frase del racconto, avendo egli scartato tutto ciò – fossero pure molte pagine – che l’aveva preceduta.
Se siete curiosi di conoscere questo primo paragrafo del primo racconto Campo indiano, che ha dato il via a un’intera tradizione di minimalismo nella letteratura americana, eccolo: «Sulla riva del lago c’era un’altra barca a remi tirata in secco. I due indiani aspettavano in piedi».
La sfida era scrivere una storia di fantasmi: così aveva detto Lord Byron ai suoi amici insieme ai quali era in viaggio verso l’Italia nell’estate del 1816. Così diceva l’allora diciottenne Mary Wollstonecraft Godwin Shelley, raccontando un suo incubo: «Vedevo… il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla “cosa” che aveva messo insieme… Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato, e poi, all’entrata in funzione di qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita… Il suo successo terrorizzava l’artista; questi sarebbe fuggito che la cosa… si degradasse in materia morta. Dorme, ma viene destato; apre gli occhi; contempla l’orrida cosa ritta accanto al suo letto, che gli apre le tende». Ecco un sogno-visione singolarmente vivido e strano. Dal racconto della giovanissima scrittrice sembrerebbe quasi che quest’allegorico racconto dell’orrore o parabola morale non fosse stata immaginata da lei stessa. Piuttosto, Mary Shelley è un’osservatrice passiva; la visione sembra provenire da una fonte diversa da lei. Eppure, conoscendo il contesto biografico della creazione di Frankenstein, siamo indotti a pensare che non può essere un caso se questo racconto di una nascita mostruosa è stato scritto da una donna molto giovane che dal suo mercuriale e imprevedibile poeta-amante Percy Shelley aveva avuto due figli, uno dei quali era morto, e si trovava di nuovo in stato di gravidanza, benché i due non fossero (ancora) sposati.
Fu a partire da quel sogno che Mary Shelley prese a parlare della “possessione” da parte del soggetto di cui scriveva. Si noti che né Byron né Shelley reagirono in modo produttivo alla sfida lanciata da Byron: fu il loro compagno e amico John Polidori a scrivere, nel 1819, uno dei primi romanzi sui vampiri, intitolato appunto The Vampyre. Ebbene, inizialmente Mary Shelley aveva pensato che la sua fosca narrazione gotica sarebbe stata soltanto un racconto breve, ma col passar del tempo e con l’evolvere del manoscritto, l’opera si trasformò in un bizzarro romanzo allegorico fortemente miltoniano. Esso fu rifiutato sia dagli editori di Shelley che da quelli di Byron, consapevoli che l’autrice era una giovane donna, e fu infine pubblicato, in forma anonima, nel 1818, quando Mary compiva ventuno anni. Da allora, Frankenstein non è mai uscito di catalogo, ed è sicuramente il romanzo più straordinario mai scritto da una diciottenne innamorata di un poeta romantico geniale e maledetto. Oggi Frankenstein non è più visto come il medico creatore del mostro, ma come il mostro stesso: l’“orrendo fantasma”. La creatura genialmente deforme di Mary Shelley si è staccata dall’autrice diventando una figura iconica apparentemente autogenerata, uno dei grandi e potenti simboli dell’inclinazione autodistruttiva dell’umanità, significativo nel nostro tempo tanto quanto nel 1818.
Circa sessant’anni più tardi, ecco un’altra orribile ispirazione onirica, la grande parabola mitica dell’epoca vittoriana: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson (1885), la quintessenza della tragica doppiezza dell’essere umano, o quanto meno dell’ipocrisia criminale dei gentiluomini vittoriani. Come numerosi poeti e scrittori dell’epoca romantica e vittoriana, anche Robert Louis Stevenson, affetto da tubercolosi, si “automedicava” (come diremmo oggi) con il laudano, una tintura alcolica di oppio con una traccia di morfina. È noto che l’oppio provoca sogni e incubi sorprendenti. Fu così che, una notte del 1885, Stevenson fece esperienza di una «bella vicenda di fantasmi», dalla quale la moglie Fanny dovette destarlo. Ispirato da quel sogno, nel giro di tre giorni Stevenson scrisse un racconto che, disapprovato dalla moglie in quanto «eccessivamente sensazionale», fu da lui distrutto. Ma poiché la storia continuava ad abitarlo, ne compose un’altra versione, anche stavolta febbrilmente e anche stavolta in tre giorni. Narrata dalla voce dell’avvocato Utterson, «lungo, magro, grigio e accigliato; e tuttavia amabile, in qualche modo» – l’emblema stesso della correttezza e dell’ottusità vittoriana – la lugubre vicenda del dottor Jekyll e del signor Hyde si libera dei suoi vincoli nel capitolo finale, intitolato Il resoconto completo di Henry Jekyll sul caso. Qui il gentiluomo vittoriano riconosce di avere dentro un animale e ammette che la sua resa al “traviamento” ha finito per «distruggere l’equilibrio del mio spirito». Mi sembra significativo che il romanzo ispirato ai sogni di Stevenson sia stato scritto mentre l’autore era confinato a letto in uno stato simile alla trance; che Jekyll parli di Hyde come di un essere «annidato dentro» di lui, «più vicino di una moglie, più intimo di occhio». È una specie di miracolo, benché infernale: Jekyll dà vita a Hyde, e Stevenson scrittore dà vita a entrambi. Ci domandiamo allora chi sia davvero a dichiarare con tanta passione: «Il mio demone era rimasto a lungo chiuso in gabbia e uscì fuori ruggendo».
I grandi scrittori post-modernisti e sperimentali della metà e della fine del XX secolo, tra cui Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Gabriel Garcia Márquez, Italo Calvino, Cesare Pavese, Dino Buzzati, s’ispirano al misterioso rapporto tra lo scrittore e il suo materiale, prodotto tanto dell’inconscio quanto del mondo osservato. Uno scrittore sperimentale è colui il quale è affascinato dalle tecniche della narrazione stessa. L’atto di scrivere è una sorta di auto-anatomia, un’auto-dissezione. Se questo può sembrare morboso, in realtà l’umore di molta prosa postmodernista è gioioso, persino festoso. La giocosità, e non la tragedia, è alla base di molte opere del grande Calvino. Libri come Le città invisibili, Se una notte d’inverno un viaggiatore e Le cosmicomiche sono talmente originali che è impossibile descriverli. Sono opere puramente concettuali unite alla più precisa poesia in prosa; i racconti di Buzzati sembrano scaturire immediatamente da surreali sogni kafkiani, in cui individui sfortunati cercano di comportarsi normalmente in situazioni decisamente anomale (case che gli scompaiono intorno, epidemie provocate dallo Stato, una frana imminente, la distruzione di una città precipitata da un pipistrello furioso perché tenuto in casa come animale domestico) che sfiorano la comicità nera. È l’insondabile vita interiore, in tutta la sua assurdità, il soggetto del racconto. Per dirla con Pavese, lo stile del Novecento esprime ma non spiega. È un perenne farsi di vita interiore e là traspare nei momenti in cui soggetto del racconto è il legame di realtà e immagine, cioè il farsi di una realtà interiore espressiva… che si manifesta in momenti in cui l’argomento del racconto è il legame fra realtà e immaginazione.
In conclusione. Homo sapiens è, evidentemente, l’unica specie che possieda qualcosa di simile al linguaggio umano, e certamente l’unica specie che possieda linguaggi scritti, “storie”. Il nostro senso di noi stessi poggia su costrutti linguistici, ereditati oppure ricordati, e considerati preziosi o almeno di valore. I nostri testi sacri li presumiamo dettati da divinità, e talora ci accendiamo di furia omicida se quei testi sono contestati o sbeffeggiati, oppure se il nome del nostro creatore è pronunciato nel modo sbagliato o dalle labbra sbagliate. Forse la letteratura nel senso più ampio, quella che incorpora secoli e millenni ed è frutto di una miriade d’ispirazioni individuali scaturite da una miriade di culture, sta a noi come la regione del cervello umano chiamata “ippocampo” sta alla memoria.
L’ippocampo è una piccola parte del cervello che ha la forma di un cavalluccio marino e interviene nell’immagazzinamento a lungo termine di una memoria fattuale ed esperienziale, che tuttavia non viene conservata qui. Se la memoria di breve periodo è transitoria, quella di lungo periodo può resistere per decenni (e difatti capita che l’ultima cosa che riusciamo a richiamare alla nostra memoria sia la prima ad avervi preso dimora): una fugace visione del volto di nostra madre da giovane, un’immagine sfocata e confusa di una stanza da bambini, una ninnananna, una voce carezzevole. Se l’ippocampo subisce una lesione o si atrofizza, il cervello non immagazzina più ricordi, quindi non vi sarà più memoria “nuova”. Ebbene, io mi sono convinta che l’arte sia la formale commemorazione della vita in tutta la sua varietà. Il romanzo, ad esempio, è “storico” in quanto s’incarna in un luogo e in un tempo specifico e presuppone che le nostre azioni siano dotate di senso. È praticamente impossibile creare arte senza un senso intrinseco, quand’anche il senso sia presentato come misterioso e inconoscibile.
Senza la quiete, la riflessività e la profondità dell’arte, e senza i suoi incessanti rigori morali, non avremmo nessuna cultura condivisa, nessuna memoria collettiva. Analogamente, se nel cervello umano si distrugge la memoria, le nostre identità si corrodono e non “siamo” più qualcuno: semplicemente, ci riduciamo a una mutevole successione d’impressioni impermalenti, senza radicamento stabile. Ma nelle società contemporanee – in cui si dedicano tanta attenzione e concentrazione ai social media, insaziabili di interessi fugaci – la “quiete” e la “riflessività” di un’arte più permanente si vedono minacciate. Noi esseri umani andiamo in cerca di un “senso” che soltanto l’arte può offrire, ma i social media non offrono senso. Offrono soltanto questa successione d’impressioni fugaci che poggiano forse su un unico principio: la sollecitazione a consumare prodotti.
L’ispirazione per la metafora è dunque il motore per la nostra sopravvivenza in quanto specie, in quanto cultura e in quanto individui.