Corriere della Sera, 4 agosto 2024
Cordelli boccia la Munroe
A proposito dell’articolo scritto in risposta ad Alfonso Berardinelli e in seguito al «New York Times» – l’articolo uscito il 21 luglio e dedicato alla più che misteriosa e discutibile sussistenza di ciò che ci ostiniamo a chiamare romanzo – non sono mancate obiezioni di una certa entità. Paolo Lepri ha osservato come nei 54 titoli citati tra i libri di qualità più o meno narrativa fossero largamente dominanti quelli che nascevano e quasi si inchiodavano a un «io», di qualsivoglia forma.
Non mancavano tuttavia, ho risposto, romanzi–romanzi, romanzi che potevano essere stati scritti non nel XX secolo ma nel XIX. Pensavo a un irlandese come William Trevor, a uno scozzese come Graham Swift, a un russo come Zachar Prilepin. Le obiezioni ricorrenti riguardavano più che i titoli (o i nomi) presenti, quelli assenti. Perché non citare Patria del basco Fernando Aramburu? O come dimenticare la giovane Katie Kitamura? Erano (sono) obiezioni sensate. Personalmente avevo trascurato e qui in millesima parte compenso Marija Stepanova, autrice di Memoria della memoria e un romanziere come Ian McEwan. McEwan è un caso a sé. Alla fine non fu citato più per indecisione che per vera scelta. Quest’anno abbiamo letto il suo Lezioni; nel 2001 era uscito Espiazione. Ma quale dei due ricordare? Il primo è un romanzo che, in terza persona, mai si stacca dall’io del narratore, un romanzo che è quasi un’autobiografia; Espiazione è il contrario esatto, un romanzo che più romanzo non si può: vi sono, memorabili, nelle sue quattro parti, la seconda dedicata alla ritirata degli inglesi dall’Europa verso Dunkerque e la terza (vedendo la storia dalla parte della protagonista) dedicata all’accoglienza ospedaliera dei sopravvissuti, in Inghilterra, di quei fuggitivi.
Tuttavia il mio problema alla fine è diventato un altro. Di Alice Munro, come fosse buono per tutti, avevo citato l’ultimo suo libro di racconti, Uscirne vivi. Non avevo una ragione particolare – come non l’avevo avuta per nominarne altri, di altri autori, sebbene non memorabili, tranne che per ricordare di quegli autori i libri più importanti, usciti alle soglie del nostro secolo; o come non avevo una ragione in più per citarne alcuni, più i titoli che gli autori, se non in quanto racconti di esperienze estreme, uniche, irriducibili, la morte di un figlio o la vicenda disperata di una madre.
La questione Munro si è presentata mentre ero nel travaglio delle mie indecisioni. La trascurai. Mi ci avvicino ora. Ma invece del suo Uscirne vivi avrei potuto citare Segreti svelati, un libro del 1994, solo se avessi saputo? E non già, direi, per il racconto «Vandali» al centro dell’attenzione dei giornali americani: semmai, anche in questo caso per la sua singolarità e quel tanto di spiacevole che vi si legge – proprio nel senso della letteratura, più che per la vicenda che vi si cela, vi si mistifica.
Diviso in quattro parti, il racconto comincia con una lettera della non più giovane Bea a Liza, una ragazza sua amica. Bea prega Liza di andare in una sua vecchia casa per assicurarsi delle condizioni di essa. In realtà informa il lettore della distanza che ormai c’è tra le due donne. «Ho saputo che sei diventata cristiana, che cosa splendida!». Mi chiedo chi mai direbbe una frase del genere. Prima di tutto la conversione (come poi sapremo) è avvenuta da tempo; in secondo luogo Bea aggiunge: «Ti sei convertita? Mi è sempre piaciuta questa espressione!». Mi chiedo: è falsa Bea o è pessima Munro nel cambiare le carte in tavola? A proposito della falsa coscienza di una delle due, Bea scrive: «Non riporre mai un tesoro in una terra invasa da tarme e da polvere per non parlare degli adolescenti». Che c’entrano gli adolescenti con tarme e polvere? Non è un annuncio (sarà, grosso modo, detto più avanti) o un ricordo di quello che è stato?
Segue il lungo insopportabile racconto di un sogno. Bea rimpiange di non aver cremato il suo compagno Doud, morto prematuramente per una operazione di by-pass. Il rimpianto è dovuto al fatto che si sarà dovuta accollare il (lieve) peso del teschio del defunto Doud. Quel teschio, «lavato e lustrato», è così leggero che qualcuno le chiede: «Ha ritirato la bambina?». Per la seconda volta nel sogno compare la stessa figura – ovvero il ricordo (o il rimorso) legato a una giovane età.
Bea in gioventù – nella sua gioventù – aveva avuto una «vita di relazioni amorose», aveva sposato un aviatore inglese, se ne era separata, aveva avuto un rapporto con Peter Parr – la cui moglie era (naturalmente!) affetta da sclerosi multipla. Il cursus honorum della sua vanità (riteneva di «essere vanitosa») finisce incontrando il tassidermista Ladner. Costui – e qui ancora una volta Munro mette le mani avanti – non era un pacifista; non aveva un cane; era lui «il proprio cane feroce». E riguardo al mettere le mani avanti (giustificarsi senza che il lettore possa capire, tanto meno capire la verosimile ragione reale, esistenziale, la ragione di un proprio vissuto) aggiunge che «donne come lei erano sempre pronte a fare la posta ad una follia che le potesse contenere». O anche: con Ladner «sarebbe riuscita a vivere circondata da implacabilità e pronte dosi di indifferenza che a volte potevano somigliare al disprezzo». Non solo: ma «avrebbe imparato a tenergli testa nella spietata tensione del sesso».
Nel secondo capitolo l’attenzione si sposta su Liza, che Bea ha aiutato economicamente per andare al college: perché lo ha fatto? Perché viene ricordato? Si direbbe, ancora una volta, non a caso. Liza informa il marito Warren (ma è tutto calcolato) dell’«impeto cordiale» di Bea. Con lui è tornata nella vecchia casa dell’amica per assolvere il compito che le è stato affidato. La maggior parte del capitolo è però dedicato al racconto della distruzione sistematica da parte di Liza di quella casa (distruzione in cui coinvolge il marito) che evidentemente per lei non è fonte di un buon ricordo. Quale? Non lo sappiamo, né lo sapremo – se non tanti anni dopo, venendo a conoscenza di qualcosa che non riguarda la letteratura bensì la vita di chi il racconto lo ha scritto. Nel terzo capitolo un altro passo indietro. C’è ancora quel ragazzo, Kenny. Liza, così giovane, non sopporta che Bea vada via dalla casa in cui lei e Ladner vivono. Il suo amore per Bea è carico di aspettative; guarda Ladner vuotare il teschio di uno scoiattolo ma è spettatrice anche di un altro spettacolo «eccitante e terribile»: Ladner imita Bea. «Faceva quello che faceva lei, solo in modo più sciocco e antipatico». Ladner aggiunge: guarda come è vanitosa. Guarda come è falsa. Finge di non avere paura dell’acqua alta, finge di essere felice.
Seguono le due scene più ambigue, più ellittiche, più sfuggenti e tuttavia più «dette». Ladner finge di afferrare Liza, «di prenderla in mezzo alle gambe. Al tempo stesso fece una faccia contrita, scandalizzata, come se la persona che stava nella sua testa fosse in collera per quello che facevano le sue mani». E poco più avanti: «Quando Ladner afferrò Liza e le si schiacciò contro, lei ebbe la sensazione che un pericolo fosse annidato nell’uomo, un crepitio meccanico, come se dovesse esaurirsi in una stilettata di luce e non dovesse rimanere niente altro di lui che fumo e odore di bruciato e fili elettrici a brandelli. Al contrario Ladner si afflosciò con pesantezza». Credo sia inutile sottolineare come metafore vagamente poetiche («crepitio meccanico», «una stilettata di luce») siano prova da parte dell’autrice di una reticenza, se non di una menzogna. Il quarto capitolo è puro anti-climax. Il terzo si conclude così: «Bea non vede quello che è stata inviata a fare. Solo Liza lo vede».
Ma anche noi lo vediamo. Vediamo chi sono i «vandali» del titolo e mettiamo a fuoco come Munro sia tutt’altro che il Cechov del XX secolo: lei che nel 1992 seppe dalla figlia ventenne che era stata stuprata dal patrigno e che alla notizia non seppe rispondere se non con il suo silenzio o, se si vuole, con questa specie di sgradevole, contorto (come tanta sua prosa) e menzognero racconto. Ritiro il suo nome dai 54 che avevo elencato. Cedo con gioia il suo posto a Marija Stepanova, alla sua formidabile, inflessibile memoria.