Corriere della Sera, 4 agosto 2024
Intervista a Morgan. Racconta la sua storia con Angelica, dei suoi tormenti e dei suoi demoni
Morgan – anzi, Marco, come Marco Castoldi, la persona non il personaggio – gira attorno al tavolo della sala riunioni dei suoi legali, dice: «Non sono io quello lì, quello lì non piace neanche a me. Raccontiamo chi sono. Quella è la deformazione fatta da certi giornali e siti e tutti ci cascano. Perché?».
L’avvocatessa che lo difende dalle accuse di stalking e diffamazione mosse dalla cantautrice Angelica Schiatti scuote la testa: «Marco, non ci possiamo difendere così». E lui, serenissimo: «Sapete perché ci cascano? Perché non si vede l’opera. Michel Foucault diceva che il matto e l’artista sono la stessa cosa. Fanno le stesse cose, dicono le stesse cose, qual è la differenza? L’artista ha l’opera. Se tu non fai vedere l’opera, allora, io sembro un matto, invece, sono una persona di cultura, uno che ha un pensiero, sono una persona morale». E ancora: «C’è l’azione, non mia, e c’è la reazione: bisogna capire il contesto».
Sono servite ore di conversazioni, incontri, chat e ascolti di canzoni inedite per capire «il contesto», che è per lui l’indicibile, il segreto inconfessabile («se lo dico, perdo il lavoro. Sono già il bersaglio perfetto, per me è finita»). Nel decreto del tribunale di Lecco che lo rinvia a giudizio, ci sono lo stalking e la diffamazione. Ci sono epiteti terribili, orrendi, sessisti, frasi ingiuriose. Però, non ci sono il revenge porn e il tentato sequestro di persona a opera di «siciliani» che tanto hanno acceso l’indignazione generale. L’imputato che non andrebbe considerato colpevole sino a condanna definitiva è stato cacciato dalla Warner che gli ha rescisso il contratto e scaricato dalla Rai che aveva in programma un suo show a ottobre. I concerti in giro per l’Italia sono stati annullati, i colleghi – fra gli altri Tommaso Paradiso, Annalisa, Noemi, Angelina Mango – hanno preso le distanze. Tutti sembrano giudicarlo più pericoloso dei magistrati che non hanno disposto una misura cautelare o un divieto di avvicinamento.
Da dove si cominciano a raccontare un amore finito, un processo che deve ancora iniziare, una sentenza che l’opinione pubblica ha già emesso? Da dove si comincia a raccontare un ragazzo dai capelli bianchi, il viso che sembra non vedere il sole da mo’, la giacchetta smilza da poeta, una vita in pezzi, tanto per cambiare. Uno che è stato escluso da Sanremo due volte, cacciato da Amici, cacciato da X-Factor, sfrattato da casa per debiti? Uno che, parole sue, «dal 2010, da quando un giornale scrisse che avevo detto “la droga fa bene” anche se non l’avevo mai detto, affronto una shitstorm ogni sei mesi»? In un video su Instagram di qualche giorno fa, Marco si chiedeva: «Che male ho fatto: ho scritto una poesia e allora?».
Altro che poesia, fin qui sono uscite solo parole irripetibili, ma arriverà anche la «poesia». L’«opera». Tre ore struggenti di musica e parole, in cui si ride, si piange e si rimpiange – per chi non l’ha avuto – un amore come quello.
Prima, Marco mi manda altre pagine e pagine, sempre di notte. Alle tre. Alle quattro. L’ultima alle 4.48 di una notte insonne come tante, come tutte. Racconta del piccolo Marco, nato nel 1972, provincia di Monza, figlio di un venditore di materassi e di una maestra elementare. Il papà affettuoso e gentile gli insegna la musica, apre una fabbrica di salotti alla mamma. La fabbrica di salotti va male, il papà s’intristisce, poi s’incattivisce, a casa, picchia i bambini; in fabbrica, licenzia gli operai uno dopo l’altro, ne resta uno e resta il bambino Marco che lotta con macchinari più grandi di lui per aiutarlo a produrre divani, poltrone. Resta il tredicenne Marco che inizia a suonare di notte nei locali per dare i soldi al padre e consentirgli di fingere che li avesse guadagnati lui. Resta il sedicenne Marco che piange sulla bara del padre suicida.
Torniamo nello studio degli avvocati Rossella Gallo e Leonardo Cammarata. Marco: «Come sto? Credo male. Non suono, non ho neanche la possibilità di parlare. Mi hanno silenziato, azzerato. Io sono una persona sonora, soffro se non posso esprimermi».
Che relazione è stata la sua con Schiatti?
«Nelle querele, lei la minimizza e questo mi ha annichilito. Dice che siamo stati insieme tre mesi, ma sono stati otto anni di affinità elettive in cui ci scrivevamo 500 messaggi al giorno. All’inizio, abbiamo avuto una storia. Dopo, ci siamo frequentati da amici del cuore e anche da amanti. Abbiamo avuto un costante scambio artistico, intellettuale, emotivo, ci dicevamo “ti amo”. Era la relazione di due persone che, messe una accanto all’altra, erano naturalmente felici in un costante processo di scambio, edificante, produttivo, creativo. Le parole si traducevano in testi, l’80 per cento delle canzoni che ho scritto parlavano di lei. Era la mia musa. L’ho coinvolta nei progetti di lavoro: era in tutte le mie chat di gruppo, di musica, economiche. Eravamo io il suo punto di riferimento e lei il mio».
Perché Angelica sostiene che siete stati insieme solo tre mesi?
«Il rapporto si è intensificato quando sono stato sfrattato nel giugno 2019. A novembre, ha detto che voleva stare con me e abbiamo lasciato i rispettivi compagni, io Alessandra, da cui aspettavo una figlia. Abbiamo deciso di sposarci. Sergio Staino ci ha sposati simbolicamente con una cerimonia comunista, in uno sgabuzzino della Rai. Poi, ho chiesto ufficialmente la mano di Angelica alla sua mamma. Siamo a febbraio 2020».
Tre mesi prima della prima querela per stalking. Veniamo al «contesto»: qual era? Lei come stava, che succedeva?
«Avevo un problema serio di tossicodipendenza. Angelica mi diceva: lo risolviamo insieme, poi ci sposiamo e facciamo una famiglia».
E lei ha provato a disintossicarsi?
«Per lei! Ho fatto la cura al cervello. Una cura potentissima, quasi un elettroshock. Mi ha mollato lì, sotto gli elettrodi e non l’ho più vista. Stavo in un letto d’ospedale, col cervello bombardato di onde magnetiche, il nervo ottico che urlava. Sono uscito dall’ospedale e mi ha bloccato su WhatsApp, non voleva più parlarmi, mi ha tolto la parola dopo otto anni che erano stati un fiume di parole, di scambio di anime. Questo è. Fino al giorno prima, ci parlavamo ogni secondo e, di colpo, si era trasformata. Nelle condizioni in cui ero, lo trovavo inspiegabile, spaventoso, era come se per lei fossi morto. Volevo solo capire perché si era trasformata in un giorno da amica a nemica».
Che terapia stava facendo?
«Transcranial magnetic stimulation, la Tms dal professor Luigi Gallimberti. Si pratica posizionando degli elettrodi sul cranio. Le prime sedute le ho fatte fra marzo e aprile in ambulatorio a Milano, poi dal 28 aprile al 2 maggio ricoverato a Padova. La consideravo un’impresa impossibile. L’esito dipendeva dalla forza di volontà supportata dall’impegno emotivo del referente affettivo. E Angelica aveva chiesto di essere quel referente. Quando ha deciso di lasciarmi, prima che andassi a Padova, i medici l’hanno avvisata che così rischiavo il fallimento della terapia. Ma a Padova lei non mi ha accompagnato».
Però lei si è fatto ricoverare lo stesso.
«L’ho fatto per me e per mia figlia, che era nata a marzo. Ci sono andato anche se, a ogni terapia, sentivo come se una mano mi toccasse il cervello dentro nella testa, una sensazione che mi metteva in uno stato di ipersensibilità, diventavo molto facile al pianto. Non ero in grado di affrontarla senza la presenza di Angelica».
Forse anche per Angelica era un’esperienza troppo forte?
«Già da prima mi diceva: sto per fare una cosa brutta che non voglio, soffriremo, sto per accoltellare me stessa. Aveva iniziato quando è uscita una nostra foto sui giornali e lei diceva che passava per sfasciafamiglie. È come se avesse fatto la terapia del disinnamoramento: costruisci il mostro per allontanarti. Infatti, aveva chiesto al mio autista di mandarle le mie foto nei momenti peggiori, anche quella in ospedale. Aveva bisogno di costruire una figura solo negativa e di fare il no contact. Questa cosa deve averle preso la mano. Dopo, scoprirò che mentre ero in ospedale, lei era all’Elba col suo ex. Mi sono sentito distrutto, quella scoperta mi ha ucciso».
Lei esce dall’ospedale e due giorni dopo, il 4 maggio, Angelica la blocca su WhatsApp. La prima querela è del 25 maggio e riferisce di insulti e minacce fra aprile e maggio.
«Io quei messaggi brutti li ho mandati in quel contesto. Non ero in me e c’era anche il lockdown e ormai una neonata che aveva bisogno di un padre».
Soffriva di crisi di astinenza?
«Provavo una rabbia ingiustificata, ero esasperato, svuotato di qualsiasi speranza. Mi sentivo in fin di vita psicologicamente ed emotivamente».
Aveva ricadute?
«Non è che avessi ricadute, proprio non riuscivo a smettere. Ancora il 16 aprile Angelica mi aveva scritto “sei il mio Marco” e, dalla querela, ho scoperto che data l’inizio dello stalking al 17 aprile, quando le ho risposto che, se mi lasciava, mi toglievo la vita».
Ed era vero che pensava al suicidio?
«Certo. Anche se annunciare il suicidio non è un suicidio, è una richiesta di aiuto. Prima del ricovero, il 26 aprile, le mando “il messaggio dolente”, da cui, poi, ho tratto almeno venti canzoni. Ne è venuto fuori una sorta di poema seriale, un’opera unica, mai fatta prima da nessuno, con musica, canzoni, prosa».
La famosa «opera»?
«C’è tutta la nostra storia. Ma lei aveva preso il “messaggio dolente” come una minaccia. Sapeva che ogni cosa che scrivo diventa una canzone, mi fa “mi stai ricattando?”. Resto incredulo, scioccato. Le dico che è un atto d’amore, non una minaccia. Le chiedo di starmi accanto perché è un calvario».
Perché Angelica era spaventata dal «messaggio dolente»?
«Forse, perché veniva fuori che mi lasciava nel momento peggiore».
Col senno di poi, si sente di dire che ha sbagliato?
«Ma certo. Ero nelle condizioni che le ho detto. Ora, chiedo ad Angelica pubblicamente scusa, ho detto cose orribili. Ero fuori di me. Le scuse private sono riuscito a fargliele su Instagram, il 25 aprile 2021. Gliele leggo: “Vorrei che le mie parole arrivassero a te integre, così che tu possa riceverne la carezza che la mano di chi le scrive porge al tuo bel volto, con una gentilezza che è far sì di non toccarlo oltre la soglia di uno sfiorar pensato… Angelica, so di aver sbagliato, di averti ferita… e per prima cosa mi preme chiederti scusa… Un gesto doveroso, necessario, autentico… Ho visto chiaramente cosa ti ha frenato, il perché della tua scelta di allontanarti… ammetto che sono i miei limiti, la mia incompiutezza…».
Perché allora, poco dopo, come sostiene Schiatti, manda i due siciliani a pedinarla?
«Non certo per farmela portare per un famigerato ultimo appuntamento, come qualcuno ha fantasiosamente ricostruito. C’era il lockdown, ero spesso sul social Club House, dove conosco un ragazzo che si presenta come mio estimatore, mi dà ragione sempre, c’è sempre. Non sapevo chi fosse, solo dopo scoprirò che è un rapper. Io stavo vivendo l’abbandono di Angelica, l’impossibilità di avere un chiarimento e ne parlavo, lui mi dice: la conosco, le parlo io. Non sono un pedinatore, non volevo farla rapire, infatti, non c’è alcun rinvio a giudizio su questo e i due siciliani non sono stati neanche indagati. Non so chi fosse l’altro che si è portato dietro per andare a Bologna, dove Angelica viveva col nuovo compagno, Calcutta. Fra l’altro, non li hanno trovati».
Però i messaggi che si scambia con questo ragazzo sono offensivi, molto denigratori verso Angelica.
«Anche ironici, ma ero nello stato in cui le ho detto. Io, per un anno e mezzo, sono stato ossessionato dal fatto che fosse sparita dalla mia vita. Come ho scritto in una poesia, “nella parola persa io mi spengo, aria che manca, quella parola dava senso all’aria… E se io parlo a chi posso parlare, al vento? Niente fa più male del niente…”. Pensavo solo a questo, non lavoravo più, se scrivevo, scrivevo solo della sua assenza».
Perché a un certo punto finge di essere il rapper Willie Peyote?
«Questa fa troppo ridere. Era un tentativo disperato di contatto. Le ho scritto da un altro telefono per chiederle una collaborazione. Mi chiede: chi sei? Mi è venuto da dire Willy Peyote. E lei: non sei Willy Peyote, sei Marco. Ho ammesso e mi fa: allora, a questo punto, sentiamoci. E ci siamo sentiti. Unica volta».
Perché ha chiesto al manager di Schiatti «la mia amica Angelica come sta? Lo tira fuori a molti il pisello o solo uno alla volta?».
«Questa frase è uscita sui giornali decontestualizzata e la chiariremo facilmente al processo».
E cosa intendeva quando chiama la mamma di Schiatti e le dice «se mi inca..o esplode il vulcano e Angelica si scava la bara»?
«In quel momento, pensavo che era Angelica che si stava comportando male e che ci faceva una brutta figura. La bara è una metafora».
Come metafora, suona malissimo.
«Se la usi male sì, ma intendevo che, se esiste il karma, Angelica, nel comportarsi male con me, nell’essere una cantautrice che denuncia un cantautore, si stava comportando male contro sé stessa».
Come spiega la chat di gruppo dove ha scritto «ora vi sparo una tripletta di video porno di A. che vi mettono a posto per qualche anno»?
«L’ho scritto con lo spirito di quello che si sfoga, che sta male, è deluso. Però la foto l’ho postata, subito cancellata, non l’ha vista nessuno e non era porno né intima. I consulenti tecnici della Procura non hanno trovato niente, nessun revenge porn. Dire che sono uno stalker è come dire a un cane che è un gatto. Prenda il caso del 13 maggio 2020: ero uscito dall’ospedale, era finito il lockdown, lei mi aveva bloccato su WhatsApp, che faccio? Salgo su un monopattino, strappo dei fiori dal vaso di un ristorante e la chiamo da numero privato per avvisarla che passo a lasciarle dei fiori. Uno stalker che avvisa. Lei dice che è a Monza dalla mamma, la mamma prende il telefono, Angelica si mette a piangere e io cado dal monopattino. Io non sono mai andato dove sapevo che lei c’era, non sono andato al suo concerto, non mi sono mai presentato fuori dal suo studio di registrazione. Anche per questo non ho mai ricevuto un divieto di avvicinamento».
L’avvocato di Schiatti ha appena detto ai giornali che ora il divieto di avvicinamento lo vuole.
«Non ne capisco il motivo. Sono tre anni che non cerco Angelica, non faccio nulla, non dico nulla».
Schiatti si è detta spaventata perché lei, rispondendo alle polemiche, ha pubblicato un post con la foto della strada di casa sua.
«Ho scritto un post su Instagram per dire che ho querelato Selvaggia Lucarelli. Serviva una foto e ci ho messo la più neutra che ho trovato: quella che mi aveva appena mandato un’amica» (Marco prende il cellulare, mostra la chat con Cindy. La data è 11 luglio. Ore 13.05: Cindy invia la foto di un guard rail, dice che è in bici e sta per arrivare) «Non ci ho proprio pensato che è una via vicina a casa sua, anche perché, a quanto ne so, Angelica non sta più a Milano. Capisce la sfiga?».
Schiatti e l’avvocato parlano anche di «vittimizzazione secondaria» causata dalle lungaggini del processo, che sembrano motivate dalla sua insistenza per transare.
(Qui è l’avvocato Gallo che prende la parola) «È stata la querelante a depositare erroneamente a Monza la denuncia che andava invece presentata a Lecco: lo ha riconosciuto il tribunale di Monza dichiarandosi territorialmente incompetente. E i tempi si sono ulteriormente allungati per la mole di integrazioni presentate dalla querelante, inclusa, a distanza di tre anni, una su una battuta di Morgan sotto un post di Calcutta. Questa: ma una doccia no? A maggio 2024, il giudice voleva fissare subito l’udienza di interlocuzione fra le parti, ha proposto quattro date a giugno e a luglio, ma nessuna stava bene al difensore di Schiatti, che chiedeva un rinvio a dopo l’estate, in quanto la sua assistita “era in tournée con biglietti già venduti”. Quanto alla possibilità di transare, la prevede la legge, perché parliamo di reati rimettibili a querela».
Marco, adesso, si è disintossicato?
«Dopo la batosta, lentamente, mi sono ripreso. Mi hanno salvato la musica e mia figlia. Nello scorso maggio, avevo firmato il contratto con Warner ed ero felice: da dodici anni, cercavo un contratto con una major. Il mio più grande dolore è che mi è stato tolto ogni lavoro: il disco, un libro che doveva uscire, il programma Rai, i concerti. Mi sento come amputato. Con Warner, Calcutta ha detto o me o lui, e Warner mi ha stracciato il contratto. L’ho denunciato, ho dovuto farlo. Il brutto di questa vicenda è che mi hanno fatto diventare una persona che non sono: io credo che un cantautore non può denunciare un altro cantautore, io credo nel dialogo, nella forza delle parole, nella pietà, nell’umanità».
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