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 2024  agosto 04 Domenica calendario

il testamento (apocrifo) di Mussolini


Incarnare la cattiva coscienza degli italiani. Questo fu il ruolo che sin dal 1945 si autoassegnò Indro Montanelli (1909-2001), diventato presto il megafono di quanti nel ventennio avevano aderito al regime, durante la Resistenza erano stati alla finestra (la cosiddetta «zona grigia») e nel dopoguerra coltiveranno del duce una «memoria indulgente» (come l’ha definita Cristina Baldassini in un importante studio del 2008, L’ombra di Mussolini). Il primo tassello di quest’operazione montanelliana fu Qui non riposano, uscito nel settembre 1945, una sorta di manifesto (autobiografico) dell’anti-antifascismo. Il secondo, l’anno seguente, furono le Memorie del cameriere di Mussolini, Quinto Navarra, vergate da due ghostwriter d’eccezione, Leo Longanesi e lo stesso Montanelli. Scrutato attraverso il buco della serratura, il fascismo perdeva ogni tratto cruento, per diventare una saga familiare.
Il terzo tassello fu Il buonuomo Mussolini, pubblicato nell’aprile 1947 e appena riproposto da Rogas Edizioni (purtroppo senza alcuna introduzione). Questo libello presentava un testamento mussoliniano apocrifo, nel quale il duce – ormai sicuro di morire – spiegava seraficamente che se lui aveva portato il Paese a perdere la guerra lo aveva fatto, paradossalmente, per tutelarlo, perché soltanto nella catastrofe gli italiani avrebbero trovato la forza per diventare grandi. La Repubblica Sociale, poi, era nata per contenere la furia devastatrice della Germania, salvando il salvabile. Infine, il dittatore esortava al superamento, nell’Italia che sarebbe nata dalle macerie della guerra, dell’«equivoca» contrapposizione tra fascismo e antifascismo, «alla base della catastrofe non soltanto nazionale, ma mondiale». Nessun cenno, va da sé, al delitto Matteotti e alle leggi antiebraiche, ossia l’alfa e l’omega del suo regime.
Fingendo d’essere entrato in possesso del documento per vie rocambolesche, Montanelli sceglieva di pubblicarlo spinto dall’«onesto desiderio di dare finalmente la parola al grande accusato, ora che tutti lo incolpano senza che nessuno possa levarsi in sua difesa». Tra i totalitarismi passati e quelli futuri, sermoneggiava il duce, il fascismo «brillerà nel ricordo degli uomini, se non come il più civile modo di vivere, certo come il più gentile modo di morire, della libertà».
In fin dei conti, nel Buonuomo Mussolini non si parlava soltanto del duce e dei suoi gerarchi, ma anche di un intero popolo che nel capo supremo s’era specchiato. La piena assoluzione di Benito si estendeva così a tutti gli italiani, eliminando i loro residui sensi di colpa. Concedendo quest’indulgenza plenaria, Montanelli – ha scritto Sergio Luzzatto nel Corpo del duce (1998), indagine seminale sul mito postumo di Mussolini – fissava i paradigmi del revisionismo più grezzo: «In poche decine di pagine, troviamo concentrati quasi tutti gli argomenti storici e politici che per mezzo secolo avrebbero alimentato l’arsenale dell’anti-Resistenza».
Come ha documentato di recente Andrea Martini (Fascismo immaginario, Laterza), a divulgare nel corso degli anni un ritratto tanto benevolo del fascio littorio – di cui Montanelli fu l’indubbio apripista – non furono soltanto reduci nostalgici (Giorgio Pisanò), giornali d’area ed editori di nicchia, ma un più ampio fronte che comprendeva penne brillanti (Giovanni Ansaldo, Giuseppe Prezzolini, Paolo Monelli), testate di buona tiratura («L’Europeo», «Epoca») e grandi case editrici (Longanesi, Garzanti, Rizzoli, Mondadori), spesso ben disposte, anche per ragioni di mercato, ad accogliere volumi compiacenti verso il duce, «il più umano dei dittatori».
Un tale revival mussoliniano, previsto da un lucidissimo Benedetto Croce già alla fine del ’43, non deve stupire. Il fascismo – lo ha chiarito, tra gli altri, Françoise Furet – non era stato percepito da tutti i suoi contemporanei come una lugubre dittatura, ma anche come espressione di un mondo nuovo, catalizzatore di grandi speranze. Cosicché, per milioni di italiani che ci avevano creduto, il 25 aprile 1945 non rappresentò affatto una liberazione, bensì un lutto difficile da elaborare. Onde la necessità di una memoria artefatta del proprio passato.
Nel frattempo, però, la buona storiografia è andata avanti. Emilio Gentile illuminava l’autentico volto del regime, in grado di permeare con la propria ideologia totalitaria pure il più minuscolo anfratto della società. Mauro Canali sosteneva la matrice affaristica del delitto Matteotti, ennesima variazione sul tema della corruzione italica. Angelo Del Boca sviscerava i risvolti criminali del colonialismo di Mussolini, facendo anche a pezzi il mito del «bravo italiano». Ancora Canali e Mimmo Franzinelli indagavano i tentacoli dell’Ovra, autrice di una capillare intrusione nelle vite pubbliche e private. Angelo Ventura approfondiva l’applicazione delle «leggi razziali» nell’università, insanabile dissipazione di talenti e scuole scientifiche. Angelo Spartaco Capogreco tracciava una dettagliatissima mappa dei «campi del duce» durante la seconda guerra mondiale (oltre 100 mila le persone internate).
Eppure, nonostante queste e altre acquisizioni fondate su imponenti indagini archivistiche, ancor oggi nel discorso pubblico spesso prevale la vetusta, benigna e banalizzante versione montanelliana, tanto brillante – almeno nella sua penna – quanto priva di profondità storica. Perché, alla prova dei fatti, il fascismo italiano si è rivelato un movimento che instaurò con la violenza, per la prima volta nella storia, un regime totalitario in un paese civile e industrializzato, conducendolo alla catastrofe di una guerra perduta a fianco di Hitler. Scusate se è poco!

Indro Montanelli
Il buonuomo Mussolini
Rogas, pagg. 126, € 14,70