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 2024  agosto 04 Domenica calendario

Morte e resurrezione di un libro capitale. Karl Marx nei Millenni. Il testo più famoso, studiato, frainteso ma, comunque la si pensi, culturalmente decisivo del pensatore tedesco, nel pantheon dell’editoria italiana. Un’occasione per poterlo riprendere

Non so a chi abbiamo qui voluto fare più dispetto – se al recensito o al recensore – proponendo a un vecchio liberale di presentare niente meno che Il Capitale di Karl Marx, appena pubblicato nel pantheon dell’editoria rappresentato dalla collana “I millenni” di Einaudi.Diciamo subito che, a differenza della titolazione degli aeroporti, si tratta di una scelta molto ben ponderata; non solo perché la prima edizione del libro risale al 1867, ma perché già nel 1945 Cesare Pavese, allora consulente editoriale di Einaudi, ne aveva proposto (rischiando il “linciaggio” dei suoi colleghi), la pubblicazione, assieme alla Bibbia e Mille e una notte, nella collezione “I giganti”, antesignana dell’attuale che finalmente accoglie l’opera di Marx: sicuramente la più pensata, probabilmente la meno letta, storicamente tra i testi di maggiore impatto nella letteratura politico-economica, come sottolinea l’introduttore Roberto Fineschi (e co-traduttore con Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgrò) in una densa e utile ricostruzione dell’impresa, della sua genesi e delle sue vicende editoriali.
Come e perché accostarsi oggi all’opus magnum di Marx? Certamente, come a un grande, irrinunciabile monumento della modernità. Il Capitale sarà pure «asimmetrico, disordinato, sproporzionato, urtante contro tutte le leggi dell’estetica» come scrisse Benedetto Croce, ma «fornì al movimento comunistico un libro di molto prestigio che, pur nel disgregamento che è accaduto di tutti i concetti di cui quel libro s’intesse, perdura e opera ancora», sempre secondo il filosofo napoletano.
La sorte in vita, e la storia dopo la morte, non sono state generose con Marx; e la sua poderosa opera intellettuale mostra da tempo crepe e contraddizioni. Il più recente e ambizioso epigono di Marx, l’autore de Il capitale nel XXI secolo, Thomas Piketty, riconosce del resto che, nonostante «una sua congruenza» nell’analisi marxiana, «il fosco destino prefigurato da Marx» (ossia lo schiantarsi del capitalismo), «non si è realizzato (perché egli) ha del tutto trascurato l’eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante aumento della produttività» del capitalismo. E allora cosa cercare oggi nel Capitale?
In primo luogo, banalmente (ma non troppo), l’impegno del lavoro intellettuale: Il Capitale è davvero l’opera della vita di Marx, che lo accompagna per anni e anni, facendogli affrontare difficoltà di ogni genere – familiari, di salute, economiche – che l’autore si lascia alle spalle nelle lunghe giornate di studio al British Museum, dove legge, si documenta, ricerca, con lo spirito dell’esploratore, indifferente ai «pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale mai ho fatto concessioni», come scrive a conclusione della prefazione alla prima edizione, citando Dante.
E qui sta la prima aporia, quella che fece cacciare Marx nel popperiano inferno dei «falsi profeti»: oltre all’impegno, Popper riconosce infatti a Marx la «sincerità» che ne ha fatto, aggiunge rispettosamente, «uno dei più importanti combattenti, a livello mondiale, contro l’ipocrisia e il fariseismo»; ma lo bolla come falso profeta non già perché le profezie si rivelarono fallaci, ma perché «sviò un gran numero di persone intelligenti portandole a credere che la profezia storica sia il modo scientifico di approccio ai problemi sociali. Marx è responsabile della rovinosa influenza del metodo di pensieri storicista nelle fila di coloro che vogliono far avanzare la causa della società aperta». Insomma, tradì il metodo scientifico praticato nella stesura dell’opera per cadere nel dogmatismo di una parabola storica determinata, quella che avrebbe portato fatalmente alla fine del capitalismo e all’avvento della dittatura del proletariato. Una visione, questa, contestata da chi non accetta l’immagine di un Marx dogmatico: nella bella biografia che gli ha dedicato, Marcello Musto ricorda come lo stesso tedesco avesse rigettato, in uno scritto che troveremo qui, l’accusa che gli era stata rivolta di non aver voluto «prescrivere ricette (comtiane?) per l’osteria dell’avvenire». Perciò, aggiunge, Il Capitale rimane imprescindibile «per comprendere il modo di produzione capitalistico».
Questa osservazione introduce due aspetti che rende Il Capitale meritevole di essere, se non divorato come un thriller, consultato di quando in quando. Il primo riguarda la natura del capitalismo che Marx presenta nel suo dinamismo incontenibile, fatto anche di avidità e sopraffazione, non meno che di innovazione tecnologica: un capitalismo in crisi permanente, ma capace di sempre trasformarsi e, certamente, non sempre in meglio, come riflettiamo in questi anni di crisi del “capitalismo democratico”. Un approccio che gli fa ad esempio prefigurare il primato della finanza, un esito illustrato con una citazione tratta addirittura dall’Apocalisse.
L’altro aspetto riguarda la natura costantemente conflittuale congenita al capitalismo, peraltro non limitata allo scontro tra due classi sociali, i capitalisti e i lavoratori, nel quale non c’è spazio, osservano diversi studiosi, per la classe media.
Da questo punto di vista, Marx, e Il Capitale vanno letti anche come grandi suscitatori di speranza. Insiste su questo Ralf Dahrendorf, il grande studioso del ruolo del conflitto nelle democrazie moderne, che per questo riconosce il grande ruolo del Marx teorico del cambiamento sociale.
Ma qui dovremmo chiedere al filosofo di Treviri un aggiornamento al Capitale, proprio alla luce del poderoso cambiamento del conflitto di classe, dovuta, almeno in Occidente, alla fine della classe operaia e allo spappolamento delle società in micro gruppi sociali incapaci di alimentare un disegno di riscatto complessivo e di spingere per politiche in grado di governare i costi sociali di cambiamenti sempre più pervasivi, trasversali e generalizzati. Forse, meriterebbe che i Millenni, dopo attenta riflessione, decidessero di dedicare un altro volume al pensiero riformista, al filone, per intenderci, di Matteotti che, ricorda Piero Gobetti, «accettava da Marx l’imperativo di scuotere il proletariato» rivolgendo però «la sua attenzione a un momento di azione intermedio e realistico».
Ma a questo punto, con chi si schiererebbe l’autore del Capitale? Con sé stesso, o con gli antimarxisti democratici? Raymond Aron rispose che nessuno lo saprebbe, e che dunque meglio faremmo a non forzare Marx a dare la risposta che piacerebbe a noi.