Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  agosto 04 Domenica calendario

Intervista ad Amanda Sandrelli

Una paginetta e mezzo di copione, niente più. Due geni nel loro momento di massima grazia. Risate, tante. Fiducia, infinita. Poi casualità, incontri, innesti, scoperte, intuizioni. Le benedette improvvisazioni. E oplà, quarant’anni fa nasceva uno dei capolavori della commedia italiana, Non ci resta che piangere, accolto con un boato dal pubblico, un po’ meno dalla critica; adorato da chi lo ha vissuto: “Sul set mi sono divertita come mai più nella vita”.
Dentro la casualità, la fiducia, l’improvvisazione e tutti gli altri ingredienti c’è Amanda Sandrelli: aveva 19 anni, era all’esordio, perfetta nel ruolo e il suo “provare, provare, provare” aspirato all’eccesso, rappresenta un gioiello nel gioiello.
Quarant’anni fa…
(Ripete, scandisce la cifra) In questi giorni me lo ripetono.
E…
È incredibile.
Cosa, in particolare?
Già da com’è nato, con un’intuizione di Mauro Berardi: è stato lui a mettere insieme Troisi e Benigni, in quel periodo in uno stato di grazia assoluto: è Berardi a chiedergli di scrivere un soggetto da poter presentare ai finanziatori. Così i due partono e per un mese si trasferiscono in Toscana.
Perfetto.
Tornano e consegnano a Berardi una pagina e mezzo. Lui la prende, la gira e rigira, poi spiazzato pone la questione: “Che ci devo fare?”. “A noi è venuto questo”.
Una pagina e mezzo?
Un mese prima dell’inizio delle riprese sempre Berardi mi parla del ruolo. Io stupita. “Non sono un’attrice”; “non ti preoccupare, è tutto da definire e sei molto giusta fisicamente”.
E lei?
Obietto: “Ho la maturità il 21 giugno”; “Il primo ciak è tre giorni dopo”.
Benigni e Troisi li conosceva?
Massimo sì. Ai tempi di Ricomincio da tre voleva mamma nel film; (sorride) mamma non sapeva chi fosse mentre io lo avevo scoperto e amato con La smorfia quando si esibiva a Non stop. “Lo devi incontrare, è bravissimo!”. Massimo si presenta a casa nostra, ci sediamo in salotto, inizia a parlare in napoletano; mamma annuiva e sorrideva. Alla fine mi guarda dubbiosa. Io intuisco la sua difficoltà: non aveva capito nulla. Traduco tutto. Poi di nuovo Massimo e sempre in napoletano. Tutto l’incontro così. Ma senza concludere nulla.
Surreale.
Tempo dopo mamma organizza due feste a casa nostra; due feste molto romane, di quelle dove inviti un numero ristretto di persone e ti ritrovi invasa da non si sa chi.
Normalmente partecipava a queste situazioni?
Macché, ero fricchettona: preferivo le serate in piazza a suonare la chitarra.
Non era affascinata da quel mondo?
Per niente, però mi piacevano le feste e soprattutto a casa mia erano una rarità; (ci pensa) in quelle serate ho trovato personaggi incredibili come Robert De Niro.
E lei…
Ero giovane, bellina, girellavo per la festa, mi sentivo a mio agio e la prima sera ho chiacchierato sia con Benigni che con Troisi; così tempo dopo si sono ricordati della ragazzina con i capelli lunghi, un po’ rinascimentale, tonda grazie a un seno importante; (pausa) ripeto: non avevo mai pensato di recitare e mai avevo recitato.
Alcun interesse.
Mentre il lavoro di mio padre lo capivo, ne percepivo l’emozione e amavo cantare, quello di mia madre mi appariva noioso: vestiti d’inverno l’estate, e da estate l’inverno. Dover ripetere venti volte la stessa frase. Buttati nella roulotte.
Il primo incontro con Troisi e Benigni.
Roberto presenta il mio ruolo: “Allora, via, non è tanto grande, ma nemmeno piccino…” Dopo un po’ che annaspava interviene Massimo: “Medio… la parola ce sta: è medio”.
Era già cinema.
Poi hanno smussato i miei dubbi: “Il ruolo è da costruire: il personaggio è di una ragazza, Pia, che appena arrivano s’innamora”. Non c’era altro.
Nemmeno una battuta?
Arrivavano la mattina, avevano un canovaccio, si chiudevano nella roulotte e partiva il cazzeggio: qualcosa scrivevano, qualcosa inventavano e poi si andava sul set.
Il copione non esisteva?
È un caso unico nella storia del cinema: nessuno sapeva come sarebbe stato il film.
Fino all’ultimo.
Durante le riprese ci interrompevano di continuo perché o Massimo o Roberto o la troupe ridevano; (ride anche lei, ancora) nei miei sei giorni di riprese, almeno per tre volte la troupe è stata sfoltita: non riusciva ad andare avanti.
Il momento “peggiore”…
Quando Massimo esce vestito da uomo del 400 o nella scena di quando gli buttano la pipì dall’alto. Le lacrime.
E i brani cantati da Troisi?
Nessuno sapeva, neanche io.
Come ha resistito a Yesterday?
Sono miope, quindi puntavo lo sguardo lontano, concentrata su un punto e cercavo di non ridere; a Yesterday sono crollata; nel film ci sono delle uscite nate così, non presenti nelle prove.
Ha debuttato in un set fuorviante.
Negli anni successivi ho ripetuto “mi hanno fregato”; è stato talmente divertente da farmi cambiare prospettiva rispetto all’esperienza con mamma.
Il suo “provare, provare, provare…”?
Nato da Massimo che chiedeva un tormentone, “così alla terza volta che la vedi ridi prima di sentirla parlare”. E aggiungeva: “Tira fuori la voce più scema che hai, più alta”. Io ho molto orecchio e molta memoria, doti che non inquadravo come utili al set: loro chiedevano e io ripetevo; loro volevano la voce ancor più alta, io li accontentavo.
Fino a quando?
Premesso: i due erano sempre insieme e all’ennesimo tentativo Roberto scova la soluzione: “Hai presente i bambini? Quando hanno la smania di qualcosa parlano pure quando prendono fiato”.
Il rapporto tra i due?
Si divertivano e si adoravano.
Non c’era lotta?
Era un piacere stare con loro. Si stimavano; (sognante) che giorni meravigliosi.
Quando si rivede?
Bravissima.
Senza se…
Non avevo alcuna ansia da prestazione, nessun pudore; non mi giocavo nulla. E poi ero in mano a due persone che avevano la mia fiducia.
Ciecamente.
Riconosco il talento fin da quando ero piccola.
In casa ha dei parametri.
Sì, non per mio merito; (cambia tono ed espressione) dopo Non ci resta che piangere fino ad Amori in corso (1989), non mi posso vedere.
Soffre.
Noto i difetti, le insicurezze; o sei come mia madre che a 15 anni era già un talento, o devi studiare, approfondire, sbagliare; (pausa, torna a prima) ho avuto una fortuna immensa.
Nello specifico?
Il mio ruolo era piccolo rispetto a quello di Iris (Peynado) ma il momento in cui i due arrivano nel Medioevo è il migliore ed è stato il meno tagliato.
Era affascinata o innamorata di Troisi?
(Leggermente dura) Di nessuno dei due, però Massimo era bello; (cambia, si addolcisce) tra i due mi sarei potuta innamorare di Benigni: arrivavo al trucco, mi accomodavo, Roberto si presentava con la chitarra e improvvisava delle serenate. Io lacrimavo. E il truccatore lo cacciava.
La prima volta che ha visto il film.
Mi sono pisciata sotto dal ridere. E non succede mai, perché di solito si conoscono le battute. Come me tutti gli altri.
Si rese conto del capolavoro.
Non avrei mai pensato al successone, al venir riconosciuta.
Subito star.
Ero diventata quella di Non ci resta che piangere, con le persone stupite che mi domandavano “non parli con la vocina!”.
Si è spaventata?
Il cinema non incide così tanto; altra storia quando per la prima volta è stato trasmesso in tv e non lo sapevo: vivevo a Milano, scendo dall’autobus a piazza del Duomo, mi dirigo alla metro e vedo la gente, tanta, che si apre a mo’ di sponda e mi guarda. E io: “Che è successo?” Ho avvertito della paura.
Di cosa?
Ho pensato: se è così per sempre, devo andare a vivere altrove.
Ha capito i suoi?
Mio padre burbero, orso, quando lo riconoscevano non li trattava proprio bene.
S’imbarazzava?
Tanto. Ero pronta a firmare l’autografo al posto suo.
Sua madre non è così.
Vero, ma ha un pudore forte.
Sono due divi.
Dentro di loro non è così; (ci pensa) dei sette anni da coppia hanno una sola foto.
Ne ha una copia?
No.
Come mai?
In quegli anni non li ho mai visti insieme. Dopo, sì. Dopo li ho visti ridere, chiacchierare, scherzare e si vogliono bene…
Anni fa ha dichiarato: “Soffro quando papà canta dal vivo: ho paura non arrivi alle note alte”.
All’acuto di Sapore di sale chiudevo gli occhi e aspettavo finisse; lui lo stesso con me: quando è venuto a vedermi a teatro mi ha confessato di essere stato male per la tensione; (pausa) non sono mai riuscita ad ascoltare i dischi di mio padre.
Perché?
Da bambina stavamo insieme solo d’estate: lo seguivo in tournée e vederlo mi piaceva. Quindi lo vedevo e sentivo. Sentirlo senza vederlo, mi fa effetto.
I suoi come hanno commentato il film?
Mio padre non mi ha mai detto neanche “ti voglio bene”; (pausa) solo negli ultimi tempi si è lasciato andare, mi manda messaggi affettuosi. Io li leggo e piango. Piango e basta. Magari sono in mezzo ad altre persone, ma non trattengo le lacrime.
Sua madre?
Estroversa, generosa, è come sembra.
Però?
Rispetto al lavoro non ha mai proferito verbo, mai un “brava”, mai un “bene”.
Esce il film e pure lei zitta?
Ricordo un “molto bello”; è come se avessero mantenuto una distanza, come se avessero voluto proteggermi; (sorride) mamma mi ha sempre dato due consigli: lavati i denti prima del ciak e arriva riposata.
Curiosità: com’è De Niro?
Simpatico quando non si sentiva accerchiato; aveva il terrore dei fotografi, con l’atteggiamento dell’animale braccato; mentre a casa mia, a cena, rilassato, era piacevole; (pausa) mia madre lo giudicava comunque faticoso: mentre sul set di Novecento c’era Gérard (Depardieu) spigliato, De Niro no.
Chi era quarant’anni fa?
Una ragazzina; ho quasi la sensazione che quella ragazzina sia un’altra persona.
Le vuole bene?
Sì; e poi ero tanto insicura: da una parte mi ponevo dei problemi assurdi, mentre di altri possibili problemi ero già consapevole.
Tipo?
Il successo non è una certezza, una costante: va e viene.
Come per i suoi genitori.
Tutti e due hanno vissuto momenti dove non battevano un chiodo; mamma negli anni 70 aveva girato dei capolavori, poi si è fermata; per questo ho sempre mantenuto una visione saggia rispetto a questo lavoro e per questo non volevo intraprendere la carriera artistica.
Sua madre è ripartita con La chiave.
Un rischio clamoroso, dove aveva tutto da perdere; mi chiese di leggere il copione.
E… ?
Le dissi che era un ruolo perfetto perché quel personaggio era lei; poi a Tinto piaceva scrivere delle porcate, ma era chiaro che tutte le porcate non potevano entrare nel film altrimenti sarebbe diventato un porno.
Eppure.
In quei momenti non avevamo una lira, vivevamo in una casa in affitto e senza un uomo alle spalle. Mamma non si è mai appoggiata a nessuno.
La chiave è del 1983, Non ci resta che piangere del 1984: in un anno è cambiata la vostra vita.
Come non mi sarei mai aspettata.
(E sorride. Gli occhi, la bocca, lo stupore sono da quarant’anni gli stessi di Pia)