il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2024
Biografia di Luigi Brugnaro
“Non mi dimetto, non ho fatto nulla di male” dice Brugnaro di Brugnaro, mandando in tilt mezzo consiglio comunale che gli grida: “Buffone, Buffone!”. C’era da aspettarlo, vista la sua storia e il suo carattere.
Per una decina d’anni Luigi Brugnaro – Mirano, anno 1961, due mogli, quattro figli – imprenditore di mille imprese, è stato l’indiscusso “paron de Venessia”. Non il sindaco, ma proprio il padrone. Con una storia che si piega per intero all’insonne malattia degli schei, “i soldi! I soldi!” da fare e da accumulare all’infinito. Lui svelto di chiacchiera barbarica – “non fatemi parlare con lo stronzo che ha parlato prima, cazzo se mi incazzo!” – di prepotenza muscolare, oltre che dotato di quella faccia tosta che serve a raccontare l’eterna favola berlusconiana dei ricchi che una volta voltati in politica, faranno non i loro interessi, ma quelli della povera gente. E il guaio è che la povera gente gli crede.
A questo giro
i magistrati lo hanno pescato per “il sistematico perseguimento di interessi personali” e in particolare per vecchie carte che riguardano un terreno da 40 ettari comprato una ventina di anni fa, per 5 milioni di euro, nell’area dei Pili, dalle parti del Ponte delle Libertà, un’area del demanio altamente inquinata. Nel 2018, a metà del primo mandato da sindaco, mentre si vantava di avere conferito tutto il suo patrimonio a un Blind Trust, si scoprì che il Trust ci vedeva benissimo e che il sindaco stava provando a vendere quel vecchio terreno a un super ricco di Singapore, mister Kwong, per la modica cifra di 150 milioni di euro, con la promessa incorporata di raddoppiare gli indici di edificabilità per trasformarlo in un affare dal 1,5 miliardi di euro.
L’affare si ferma perché mancano i piani di bonifica, ma intanto altri business edilizi diventano progetti: due torri residenziali, cento ville, un Centro commerciale, il nuovo stadio per il Venezia calcio, e accanto il nuovo palasport per la squadra regina del basket, la Reyer, che per puro caso appartiene a Brugnaro.
I sospetti corrono più veloci degli affari. Le intercettazioni e le indagini svelano che i più stretti collaboratori del sindaco-paron, vengono tutti dalle sue aziende. Ne indagano 23. Il più fidato tra i suoi assessori, Renato Boraso, la cui condotta viene giudicata di “mercificazione della funzione pubblica, sistematica e compulsiva”, finisce in carcere. Il primo, per il momento. Brugnaro scalpita, resiste e pianze: “Sono pronto alla mia via crucis, speremo no i me metan in croce”.
Una dozzina di giorni fa, comparendo per la prima volta in pubblico dopo lo scandalo, camminava in mezzo a una nuvola di fischi, improperi. I meno volgari erano “Vergogna!” e “Dimettiti!”, che sono sale rovente sul suo narcisismo ferito e sulla sua storia.
Modesta e assai per bene era la sua famiglia di Spinea, sobborgo di Mestre. La madre maestra elementare, il padre Ferruccio, operaio della Montefibre, una colonna della Cisl negli anni delle rivendicazioni, nonché poeta amatissimo, narratore di lotte sindacali e di notti stellate sopra le luci del Petrolchimico.
Studia, si iscrive a Architettura, ma come racconta chi lo frequentava allora “era sempre alla ricerca della trovata per fare i schei”. Incontra un ex marine, Charles Hollomon, che conosce i computer e ha appena fondato a Marghera la prima agenzia per il lavoro interinale in Italia, importando l’idea dall’America. Si fa spiegare di cosa si tratta: intermediare con le aziende per fornire manodopera a tempo determinato e incassare una percentuale sui contratti. È il 1993 e le agenzie interinali sono ancora fuorilegge. Ma tre anni dopo quando Brugnaro viene a sapere che Tiziano Treu, uomo Cisl, nonché ministro del Lavoro nel governo Prodi, sta per renderle legali, sgama l’idea, bye bye Mister Hollomon, fonda da solo la sua agenzia che in breve moltiplica per dieci in Veneto, per cento in Italia. La battezza “Umana”, anche se il padre poeta ha fatto anni di battaglie contro lo sfruttamento proprio del caporalato e del lavoro a chiamata, dichiarandolo “inumano”.
Dato che guadagna a percentuale sul lavoro altrui, “Umana” offre un flusso di cassa continuo. Brugnaro diventa milionario in un batter d’occhio. Impiega una ventina d’anni a scalare il primo miliardo di fatturato. Da quel momento la trovata è fare i schei con gli altri schei. Compra case, palazzi, terreni, società digitali, imprese di pulizie, parcheggi, allevamenti in Maremma.
Di alta economia non capisce quasi nulla, ma di quella altamente politica tutto. Scala la popolarità sportiva comprando nel 2006 la Reyer, nobile squadra di basket, che vincerà due campionati di seguito. E scala la celebrità politica diventando nel 2009 il presidente di Confindustria Venezia, maneggiando l’ossessione dei comunisti, delle tasse e delle procure.
Il salto definitivo lo fa nel 2015 candidandosi sindaco contro Felice Casson, l’ex magistrato, la toga rossa che spaventa il ceto degli esentasse, esorcizzato in stile berlusconiano “Libertà, libertà!” e con lo slogan: “Non abbiamo bisogno di giudici in politica: riportiamo Venezia in serie A”. Vince il primo mandato, stravince il secondo. Governa da paron. Decide e ordina. Ce l’ha con gli extracomunitari: “I nostri ragazzi vanno educati, serve una differenza tra loro e quelli che vivono sugli alberi di banane”. Detesta gli omosessuali: “Il Gay Pride mi fa schifo!”.
La sua burbanza piace anche se da subito smantella le reti di protezione per i più deboli, compresi i lavoratori a bassa soglia, riduce gli investimenti per il recupero delle donne schiave della strada e per i tossicodipendenti. Mestre scala le classifiche delle morti da overdose, ma il suo approccio resta securitario: polizia, retate, carcere. Smantella il decentramento amministrativo – “Volevano fare il Vietnam, siamo intervenuti con il Napalm” – concentra tutto nelle mani del Comune e dalla giunta che gli obbedisce come una falange. Non ascolta le opposizioni e va solo una volta l’anno in Consiglio dove parla ore, per metà in dialetto, specie quando insulta i consiglieri: “Disastro de omo, porta sfiga, vai fora, corri!”.
Se la intende con Matteo Renzi proprio sugli schei e incassa dal suo governo i 457 milioni del Patto per Venezia, anno 2016. Distribuisce a pioggia. Ma con il tempo i soldi finiscono e la prepotenza non paga. Corrono le voci sugli interessi privati negli atti pubblici, i sospetti di corruzione, proprio come stava accadendo nella Liguria di Giovanni Toti, l’alleato con cui Brugnaro si inventa “Coraggio Italia”, il nuovo partito che fondano insieme. E che – tra i due mari di carte giudiziarie – insieme affondano.