la Repubblica, 3 agosto 2024
Biografia di Anna Pirozzi
È una gladiatrice Anna Pirozzi, interprete privilegiata delle eroine d’opera più toste, quelle d’acciaio nella voce e nel temperamento. Per la prima volta è ospite del Festival Puccini di Torre del Lago. CantaTurandot, una delle parti che più le si addicono: quattro recite oggi 3 agosto e poi, 10, 17 e 23 agosto. «Sono una verdiana, ma sento mie anche alcune donne di Puccini. Tipo Tosca,che ho fatto una sessantina di volte,
Fanciulla del West che mi attende l’anno prossimo, e naturalmente
Turandot, debuttata sette anni fa a Tel Aviv con Zubin Mehta sul podio», dice la soprano, origini napoletane, trasferitasi ragazzina ad Aosta, a cui nel 2023 il festival estivo allestito in riva al lago di Massaciuccoli ha assegnato il premio come miglior voce pucciniana. Una Turandot,questa di Torre del Lago, che termina con la morte di Liù, cioè nel punto incui il compositore ha lasciato incompiuta la partitura prima di morire lui stesso, esattamente un secolo fa, nella clinica di Bruxelles dove era andato a operarsi di tumore. Ne firma regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi (responsabile artistico dell’intera rassegna toscana), dirige Renato Palumbo. Nel cast anche Amadi Lagha, Chunxi Hu, Andrea Concetti, Pietro Spagnoli, Saverio Pugliese, Luigi Morassi.
Signora Pirozzi, si riconosce in Turandot perché è una donna granitica come lei?
«Turandot avevo timore ad accettarla. Mi dicevano che poteva rovinare la voce. Poi, quando finalmente l’ho provata con Mehta, mi sono accorta che, sì, nella mezz’ora in cui canta ha acuti impetuosi, ma niente di tanto temibile come si trova, per esempio, nel Verdi della Lady Macbeth o di Abigaille, la protagonista del Nabucco, due parti che mi appartengono da sempre. Turandot è forte, imperativa, non si lascia mettere i piedi in testa. Tuttavia, estrapolata dalla cornice fiabesca della storia, la sua sofferenza psicologica e il rifiuto dell’amore maschile (che tuttavia inconsciamente desidera) la rendono simile a molte donne di oggi, ferite nel corpo e nell’animo dalla violenza di certi uomini».
Se può affrontare ruoli del genere è anche grazie alla lunga gavetta?
«Ho voluto tenacemente cantare l’opera e ci sono riuscita, benché tutto e tutti mi spingessero a desistere. Troppo tardi, venticinque anni, per cominciare lo studio della musica, meglio impegnarsi in un lavoro vero, sicuro, mi dicevano. E anche se lavoce c’è, opulenta e vasta, e a trentadue anni ero pronta per il debutto, i concorsi lirici a cui partecipavo non andavano mai bene e nessun manager si sentiva di imbarcare una della mia età nella propria agenzia».
Da dove viene questa bramosia
cocciuta per il melodramma?
«Sono nata cantante pop.
Pianobar, matrimoni, feste. Mi immaginavo a Sanremo. Poi, per imparare a leggere la musica, l’iscrizione al Conservatorio, dove mi sono innamorata dell’opera che intrasentivo nell’aula accanto allamia. Ho preso ad amarne le trame, avvincenti come quelle dei film, ad ascoltare le registrazioni della Callas, di Del Monaco e Di Stefano, e ho capito come amministrare la mia voce ampia. Per pagarmi gli studi e l’iscrizione ai concorsi di canto lavoravo come assistente domiciliare agli anziani. A loro cantavo spesso, anche se le colleghe e i miei familiari mi consigliavano di lasciar perdere la lirica. Nel frattempo mi facevo le ossa sul palcoscenico: con una compagnia itinerante e una manciata di strumentisti portavamo nei piccoli teatri di provincia Tosca, Nabucco, Aida.
Così ho imparato il mestiere, prendendo 50 euro a sera».
Quand’è stato, allora, che dalle spedizioni punitive in pullman è passata alla serie A dell’opera?
«Lo devo a un’audizione al Teatro Regio di Torino per Un ballo in maschera di Verdi. Era il 2012.
Con me una decina di altre candidate. Il direttore artisticonicchia e mi rimanda al sovrintendente. Che, pure, nicchia. E mi rimanda al direttore d’orchestra, Gianandrea Noseda.
Che, finalmente persuaso, stabilisce di darmi una recita.
Sapevo che lì mi giocavo il futuro.
L’anno dopo ero a Salisburgo con Riccardo Muti».
Mai trovata una parte che l’ha messa in crisi?
«Sì, ma non per ragioni vocali. È Suor Angelica di Puccini. Che dolore per me, madre di due bambini, impersonare una mamma a cui viene detto che il figlioletto è morto. Ho dovuto compiere un duro lavoro psicologico per scindere me stessa dal personaggio».
Un momento difficile nella carriera?
«Combacia incredibilmente con uno dei più esaltanti: il debutto alla Scala nei Due Foscari di Verdi accanto a Plácido Domingo. Alla prima ebbi i “buh” del loggione.
Provenivano da quattro gatti, però riecheggiavano in sala come fossero un milione. Dietro le quinte piansi. Avevo studiato così tanto e non avevo cantato niente male. Ma bisogna sempre guardare avanti, perché altrimenti si rischia di sprofondare. E le lacrime si sono tramutate in una grinta ancora maggiore da sfoderare nelle recite successive. Che furono un successo».