la Repubblica, 3 agosto 2024
Biografia di Piero Ottone
La carriera di Piero Ottone, del quale ricorre in questi giorni il centenario della nascita, è il paradigma del percorso professionale di una generazione, che ha avuto la fortuna di vivere gli anni d’oro (per vendite e disponibilità economiche) del giornalismo italiano: la partenza era una lunga navigazione all’estero e la conclusione l’approdo a una direzione. Metafora che, nel suo caso, è tanto più calzante in quanto navigare a vela era la seconda passione, vissuta con una dedizione assoluta, quasi religiosa.
All’estero Pier Leone Mignanego (questo era il suo nome all’anagrafe) andò giovanissimo, ad appena 23 anni. Era stato assunto allaGazzetta del Popolo, una fucina di grandi talenti. Massimo Caputo, che la dirigeva con un piglio molto autoritario (assai comune nei direttori dell’epoca, anche Giulio De Benedetti a La Stampa, l’altro grande giornale torinese, era così) decise che doveva però avere un nom de plume più memorizzabile per i lettori. Scelse il cognome della madre e divenne Piero Ottone. E con questo cominciò a firmare da Londra, la sua prima sede di corrispondenza nel 1948, e poi da Bonn, allora capitale della Germania Ovest.
Ma la vera tappa delcursus honorum verso il gradino più alto del podio professionale fu – come per altri, da Alberto Ronchey ad Arrigo Levi – Mosca. Ci andò per ilCorriere della Sera nel 1955, due anni dopo la morte di Stalin, mentre la capitale dell’Urss ancora stava leccandosi le ferite della Seconda guerra e della dittatura paranoica del despota georgiano.
Ottone fu una sorta di pioniere per i quotidiani italiani. Quando andai a salutarlo nel suo ufficio di direttore del Secolo XIX,prima di partire a mia volta per Mosca quindici anni dopo la sua esperienza, mi raccontò quanto fosse stata complicata la sua vita quotidiana, in una penuria costante di beni di consumo e di alimentari, e frustrante quella professionale: gli articoli, prima di essere trasmessi via telefono al giornale, dovevano essere sottoposti a un invisibile censore (era nascosto dietro un vetro smerigliato, si vedevano solo le mani) all’ufficio centrale del telegrafo. Che li restituiva, a volte dopo lunga attesa, con sottolineate in nero le parti sgradite e quindi censurate.
A Mosca Ottone incontrò colei che sarebbe diventata sua moglie, Hanne Winslow, che lavorava al consolato della Danimarca (e il suopatrimonio linguistico si arricchì di una quinta lingua, dopo inglese, tedesco, francese e russo). Insieme si trasferirono a Londra, dove imparò a giocare a golf (sport poi soppiantato dalla vela) e a fu mare la pipa, anche quella poi abbandonata. Ma soprattutto assimilò quelle qualità del miglior giornalismo anglosassone (di cui allora The Timesera il capofila, prima che finisse nelle mani di Murdoch), di cui si fece grande interprete prima nella scrittura, quando divenne inviato delCorriere della Sera e autore di una serie di memorabili inchieste, e poi nello stile della direzione, che assunse nel 1972 e tenne fino al 1977. Di quella direzione si ricordano abitualmente due episodi: l’assunzione di Pier Paolo Pasolini, che fece storcere molte bocche nei salotti bene milanesi ma che per Ottone era «un valore aggiunto» che avrebbe aumentato il prestigio e la diffusione della testata. E il licenziamento di Indro Montanelli, un monumento intoccabile, che però criticava apertamente la linea del giornale. Che, diceva Ottone, è come una nave: alla fine c’è uno solo, il comandante, che decide la rotta. Quindi chi non è d’accordo deve essere sbarcato. Solo la barca a vela lo distraeva dal controllo attento e puntiglioso che dedicava al giornale. Una distrazione totalizzante, praticata religiosamente ogni domenica e nella vacanze estive, che non ammetteva intrusioni, del resto più difficili prima dell’era dei cellulari. Così, anni dopo aver lasciato il Corriere ed essere passato in Mondadori, mancò l’occasione (e in realtà non se ne dispiacque molto) di fare il ministro in un governo balneare di Amintore Fanfani: navigava nel Mediterraneo e neppure la potente “batteria” di Palazzo Chigi, nota per la capacità di trovare le persone ovunque, riuscì a localizzarlo.
La passione per la vela lo portava a un certo disdegno per altri sport, specie quelli che considerava volgari e invadenti, come il “running”. Dopo una acrimoniosa critica in “Vizi & Virtù”, la rubrica settimanale che teneva sul Venerdì allora da me diretto, contro coloro che invadevano le strade cittadine «in mutande e canottiera» (copyright Eugenio Scalfari, che lo aveva nominato Garante del lettore per Repubblica ), arrivarono decine di lettere di protesta. Quando lo informai con un’imbarazzata telefonata, in cui gli confessai di essere a mia volta un appassionato “runner”, mi rispose serafico: «Ah sì? Se ne faranno una ragione. Quanto a te puoi sempre cambiare sport. Se vuoi ti insegno ad andare a vela».