la Repubblica, 3 agosto 2024
Meshal reggente di Hamas ma l’amico di Erdogan è sgradito agli ayatollah
Il martire vivente si può riprendere Hamas. Pur senza la conferma ufficiale, si accumulano i segnali che sarà il 68 enne Khaled Meshal ad assumere, ad interim, il ruolo di capo dell’ufficio politico del partito responsabile del 7 Ottobre. Carica che aveva già ricoperto per un ventennio, dal 1996 al 2017, durante il quale è scampato a un attentato del Mossad, guadagnandosi un ossimoro come soprannome.
Nonostante i rapporti non buoni con il regime iraniano, Khaled “martire vivente” Meshal è il primo nome sulla lista dei possibili successori di Ismail Haniyeh, leader di Hamas fino a mercoledì, quando forse una bomba, forse un missile aria-terra lo ha ucciso in un palazzo di Teheran protetto, non troppo evidentemente, dai Guardiani della Rivoluzione.
Dicevamo dei segnali che indicano Meshal come il successore. Il primo è stato la telefonata che il vecchio Abu Mazen gli ha fatto dopo la morte di Haniyeh per esprimergli il cordoglio dell’Autorità nazionale palestinese. Il secondo ieri mattina, quando il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan lo ha incontrato a Doha per capire i prossimi passi di Hamas nel negoziato per il cessate il fuoco a Gaza. Una sorta di investitura informale. Non è un segreto che la Turchia, nella delicata partita geopolitica che ha visto di recente Erdogan minacciare l’invasione di Israele, spinge per la nomina di Meshal, che toglierebbe Hamas dall’orbita degli sciiti iraniani. Il terzo segnale, sempre ieri, è il numero enorme di strette di mano e abbracci durante le esequie di Haniyeh nella moschea ibn Abd al-Wahhab, conclusasi con la sepoltura nel cimitero di Lusail. A Doha erano presenti i massimi vertici del Qatar, esponenti di Fatah e tutto lo stato maggiore di Hamas, tra cui quel Khalil al-Hayya, legatissimo a Sinwar e secondo nome nella lista dei candidati.
L’elezione ufficiale del capo avverrà in seno al Consiglio della Shura e al politburo, ma essendo Hamasun partito islamista frammentato in fazioni, clan e reti occulte, c’è già chi frena su Meshal, come Bassem Naim, responsabile del dipartimento delle relazioni internazionali di Hamas. «Il nuovo leader non è stato selezionato, serve il voto interno».
Il punto su cui si interrogano gli analisti in queste ore non è banale: Meshal è noto per lo scarso feeling con gli ayatollah, a differenza di Haniyeh, perciò, nel caso di un’eventuale investitura, potrebbe spostare il baricentro internazionale di Hamas da Iran-Libano-Siria a Qatar-Egitto- Turchia. «È un pragmatico non inviso al negoziato», ricorda Hani al-Masri, direttore del Masarat, think tank palestinese. Fino a dove si spingerà non è prevedibile, e tuttavia l’ipotesi che con Meshal il conflitto israelo- palestinese possa in ipotesi arrivare a un compromesso tollerabile, si fa un passo più concreta.
Era stato lui, nel 2017, a riscrivere lo statuto di Hamas, che aggiornava la prima Carta del 1988 dello sceicco Yassin. Nel documento i riferimenti all’Islam si erano ridotti e, pur ribadendo l’illegittimità della nascita di Israele, apriva all’accettazione di uno stato palestinese «secondo le linee del 4 giugno 1967, con Gerusalemme capitale e il ritorno dei rifugiati». Netanyahu si fece riprenderein video mentre accartocciava e buttava il documento nel cestino, ma lo statuto di Meshal, di fatto, segnava una discontinuità.
I rapporti con il regime iraniano si sono raffreddati durante la guerra civile siriana quando Meshal ha criticato aspramente Assad perché combatteva contro la Fratellanza musulmana. Come conseguenza, la sede di Hamas è stata trasferita da Damasco a Doha. «Gli iraniani e anche Hezobollah lo vivevano come una sfida, a differenza di Sinwar e Saleh al-Aruri (comandante dell’ala militare in Cisgiordania, ucciso a gennaio da un raid aereo israeliano su Beirut, ndr) che da sempre vedevano Teheran come un alleato», spiega Michael Milshtein, direttore del Forum studi palestinesi al Centro Moshe Dayan. «Le due parti si mostreranno flessibili, non mi aspetto una crisi tra Hamas e Iran». Anche perché i fondamentalisti non se lo possono permettere: al 300 esimo giorno di guerra il vertice politico è decapitato, 20 battaglioni su 25 distrutti.
Meshal è più un simbolo carismatico che un dirigente operativo. Come Haniyeh difficilmente avrà un peso specifico nel negoziato, su cui decide Sinwar. Tuttavia, non è un clone di Haniyeh. «Fra i due c’è una differenza sostanziale», scrive Paola Caridi nel suo libro “Hamas”. «Meshal ha avuto una vita segnata dall’esilio, tutto il suo percorso politico si è svolto nella costituency all’estero. La figura di Haniyeh è radicata nella Striscia, dentro alle dinamiche che nell’ultimo decennio hanno cambiato Hamas».Nato a Silwad in Cisgiordania, cresciuto in Giordania, Meshal è stato quasi sempre fuori dalla Palestina. Ad Amman nel 1997 è sopravvissuto a un tentativo di assassinio da parte di due agenti israeliani che, entrati nel Paese con passaporto canadese falso, gli hanno iniettato del veleno nell’orecchio. Re Hussein ha negoziato e ottenuto da Netanyahu l’antidoto. Da lì in poi Meshal, per tutti, è stato il martire vivente.