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 2024  agosto 03 Sabato calendario

Chiara Gamberale racconta la guarigione dall’anoressia

Nel 1994 l’Italia calcistica viveva un’estate di passione, un sogno che si sarebbe infranto nella finalissima contro il Brasile giocata a Pasadena, proprio sul dischetto dei rigori. E intanto, oltreoceano, a migliaia di chilometri da quel caldo torrido e dagli schemi tattici di Arrigo Sacchi, stava sbocciando l’adolescenza della scrittrice romana, pluripremiata, autrice di numerosi libri, Chiara Gamberale, che in questa lunga chiacchierata rievoca l’estate dei suoi diciassette anni trascorsa sulla piccolissima isola di Giannutri, quattordici chilometri a sud-est dell’Isola del Giglio, nel punto più a sud della Toscana
Chiara Gamberale, che anno fu per lei il 1994?
«Non ho fatto mai segreto della mia tormentata adolescenza, stavo attraversando gli anni più brutti, alle prese con un fortissimo disturbo alimentare, un’anoressia che mi faceva passare le pene dell’inferno».
E cosa successe?
«Proprio nel 1994 fu cruciale l’incontro con un amico di mio padre, Luciano Segre, un uomo che tutte le estati portava gli adolescenti disturbati figli di amici suoi, proprio lì, a Giannutri. Lui che non aveva figli ma adorava attorniarsi di ragazzini in difficoltà».
Perché accettò?
«Ero in seria difficoltà, lo ammetto. Oggi posso dire che ero una persona complicata e piena di mostri. Mio padre mi propose di andarci ma mi sembrava una follia l’idea di recarmi su un’isola con un gruppo di sconosciuti e un uomo mai visto prima. E poi mi chiamò proprio Luciano»
Lei dove si trovava?
«Nel frattempo io ero in Irlanda, sotto la pioggia, al Trinity College per studiare l’inglese. Dove c’era pesantezza, mi sentivo a casa mia. Nel 1994 non c’erano i cellulari e Luciano mi chiamò laggiù ma ancora oggi non saprei dire come mi convinse».
Che viaggio fu?
«Mi portarono in auto sino a Grosseto, lì presi il traghetto e cominciò un’estate indimenticabile perché fu l’inizio della guarigione di questa ragazzina che si perdeva dentro e non riusciva a sbocciare».
Com’era il resto del gruppo?
«Tutti come me. Ragazzini disagiati. Uno non studiava, uno si drogava e l’altro non riusciva a mettere piede fuori di casa. Luciano ora non c’è più, è scomparso sei anni fa a 82 anni ma il suo funerale lo ricordo come una folla di adolescenti come non ne avevo mai visti, tutti presenti per commemorarlo. E io l’ho celebrato in diversi libri, a partire da Una vita sottile, con un personaggio che porta proprio con il suo nome»
Che tipo era?
«Lavorava nella comunicazione. Era davvero unico, con un vocione e delle enormi sopracciglia tipo Caronte. Viveva abbracciato al suo cane, un uomo che sentiva solo con il suo cuore e pensava con la propria testa, attento a non fare del male a nessuno, perché questa era l’unica regola di vita».
E regole ce n’erano?
«Per il resto non esistevano i divieti nei ristoranti, non esistevano orari o regole su come comportarsi che voleva imporci. Esisteva solo esistere. Ma ci riservava dei metodi estremi».
Ad esempio?
«Io mi vergognavo del mio corpo, non volevo mettermi in costume. E allora lui prese tutti i miei vestiti e li buttò via. Era un matto. Un’altra volta ci eravamo dimenticati di gettare l’immondizia e lui ci lasciò fuori tutta la notte: un’anoressica e un ragazzo che aveva paura delle femmine. Io e quel ragazzo ci piacevamo, passammo tutta la notte in giro per l’isola sino all’alba ma non ci fu neanche un bacio, figurarsi».
Chiara, com’era la sua famiglia?
«Molto inquadrata mentre oggi, da madre single, credo moltissimo nelle famiglie alternative. Credo che, inconsciamente, mio padre sentisse di potermi dare ciò che mi serviva ma, al contempo, volesse mostrarmi che gli adulti possono essere anche così, come Luciano. Sì, quello di mio padre fu un gesto d’amore che mi era necessario per salvarmi». Le manca Luciano?
«Molto. Finché c’è stato ci siamo sempre confrontati ma ho capito la lezione di vita».
Ovvero?
«Mia figlia Vita, oggi ha molti adulti vicino, persone che non le sono legati per motivi di sangue. Adulti vivaci e bizzarri che le possono dare la libertà necessaria per maturare una visione personale del mondo, qualcosa che ha davvero cambiato la mia esistenza».
Chiara cos’è per lei la scrittura?
«La mia salvezza e per fortuna me ne sono resa conto presto. L’ho capito subito, con il primo libro che ho letto ovvero Piccole donne, rendendomi conto che quelle quattro sorelle della Louisiana, create alla fine dell’Ottocento dalla penna di Louisa May Alcott, mi capivano molto di più delle mie compagne di classe».
Il potere dei libri...
«Ora vengo da anni molto complicati che verranno sublimati dall’uscita del nuovo libro ma soltanto scrivendo, e ancor prima leggendo, ho capito che potevo davvero uscire da me stessa, dal dentro in cui mi ero rinchiusa».
Già sull’isola scriveva storie?
«Certo. A Giannutri giravo sempre con un blocco su cui scrivevo. Quella del ’94 è stata la prima di quattro estati di fila trascorse sull’isola e alla fine, scrissi anche un romanzo sulle nostre storie, si chiamava Soffio. Ed era una roba oscena».
Oggi com’è il rapporto con il suo corpo?
«Sono percorsi lunghissimi e si rischia sempre di ricadere negli incubi. Ma adesso voglio bene al mio corpo, consapevole che il momento più felice è stata la maternità perché finalmente serviva a qualcun altro. Quel lunghissimo percorso di consapevolezza è iniziato a Giannutri ed è finito quando mi sono innamorata di quell’uomo che è diventato mio marito, Emanuele».
Ma l’estate per lei cosa rappresenta?
«Un momento di rivelazione. Ogni singola estate per me è significativa proprio perché sono sempre spinta alla ricerca dell’Altrove».