La Stampa, 3 agosto 2024
La stupidità della guerra
Deo Gratias, siamo in guerra! Lo pensano soddisfatti i generali che prenotano acquazzoni di medaglie e si sentono, con l’arrotare delle baionette, finalmente meno inutili, grotteschi e decorativi; e i politici, sordi e ciechi e insensibili a tutto se non ai loro meschini bisogni, alle loro omertà, ai loro intrighi così microscopici da risultare incomprensibili. E poi i “pescecani’’, i profittatori, i parassiti, i procaccianti, i padroni e i contabili della più criminale delle industrie, la Difesa, che vuol dire morte. Ci sarà da lucrare nel tempio dove si perfezionano e puzzano i vizi più abbietti, i più desolati peccati mortali: l’avidità, l’indifferenza all’uomo, il cinismo. Sono loro i nuovi eroi dei conflitti di oggi, non quelli di Hemingway bilanciati tra la guerra, una donna e le corna di un toro, intenti a “godere’’ il rischio. A noi toccano questi manager, eroi seduti, generati dalla poltrona e dal tavolino, grigi, di scarso e difficile rilievo umano, strateghi della produzione bellica, e della distribuzione delle materie prime e delle risorse per la vittoria.
E poi, ad officiare, si fanno sotto gli intellettuali con le loro ignobili formulette catechistiche, e gli esperti, e i giureconsulti del metafisico diritto internazionale che è quanto serve per coprire le porcherie proprie e sanzionare quelle del nemico. Sono, tutti costoro, come i corvi. Sostengono di sapere, non si sa per quali vie, chi vincerà e si rallegrano della morte, “un sacrificio necessario’’. Ce l’abbiamo fatta, smaniano. I bombardamenti scavano già i loro profondi solchi di fragore. E quelli a buccinare: ci vuole la guerra per fare il mondo migliore.
Leggo un libro, monumentale, del famoso generalissimo americano David Petraeus che Utet ha opportunamente tradotto, L’arte della guerra contemporanea: dietro il titolo pretenzioso c’è la storia militare dell’edificazione dell’impero americano e della sua inesorabile decadenza, dalla Seconda guerra mondiale all’Ucraina. Dovrei riflettere dunque sulle memorie della Corea e del Vietnam. E invece per un riflesso capovolto il generale mi introduce, temo involontariamente, alla irrimediabile stupidità della guerra, anche quella dichiarata dalle democrazie, quella delle Buone Cause. Alla sua inutilità: assoluta sconvolgente criminale.
Se c’è una inerzia nel mondo, una continuità nelle cose che esistono e si oppongono a esser mutate o spente, questa è la guerra con la sua inerzia, i suoi stupidi luoghi comuni, il suo peso infinito. Chi si ricorda dei piccoli soldati, dei “poilus’’, dei non eroi, quelli dei pidocchi, delle “spallate’’, i destinati a vivere poco, come le mosche d’autunno? Restano solo i nomi, vite e sentimenti come vecchi soprammobili finiti alla rinfusa sul banco di un rigattiere. La guerra invece resta: come gli scheletri fossili di animali di un tempo che è stato. Se ne occuperanno poi gli storici con il semplicismo della immaginazione archeologica. Guardatevi attorno: tutto ci parla di lei, il nome delle strade, le statue degli eroi in uniforme, con le armi in pugno, baciati dalla gloria e dalla morte. La guerra è la madre delle letterature, all’alba di ciascuna ci sono epopee e massacri in endecasillabi o rime sciolte l’Iliade, la Chanson de Roland, il romancero del Cid. Il romanzo ha iniziato la sua vita raccontandoci le violente avventure dei cavalieri e soltanto più tardi si è interessato ad altri soggetti. Perché la guerra, considerata in sé stessa, è un fenomeno che sbalordisce. E la scienza, diceva Aristotele, comincia sempre con lo sbalordimento.
I pacifisti, ottimisti e tapini, continuano a credere che basti mostrarne agli uomini la crudeltà e ricordare continuamente il numero delle sue vittime e delle sue devastazioni perché gli uomini vi rinuncino. Illusi. Guardatevi attorno nell’ex continente della pace. Nel 2022 un despota che sogna di rinnovare gaudii appassiti scatena un sanguinoso parapiglia e subito la mischia, il macello agiscono su di noi come una modificazione brusca e profonda della sensibilità e degli ordinari procedimenti del pensiero. Le facoltà raziocinanti di élites con l’ambizione alla roba e al pareggio di bilancio sono subito annebbiate, persino l’istinto più profondo di tutti, quello della conservazione, è soffocato: guerra fino a quando sarà necessario! La psicologia sociale va a rotoli, tutti i valori si capovolgono, dalla morale alla economia. La proibizione dell’omicidio e il divieto della distruzione sono gettate a mare, le frontiere del sacro si allontanano e si confondono.
Ucraini e russi, li si potrebbe dire fratelli. E invece... Stupisce la rapidità con cui si riattivano le vecchie ire e i torti veri o presunti. Quello che era latente si risveglia come un vulcano. Il meccanismo è avviato, inesorabile: si odia, intensamente. In questo stato di eccitazione si respinge ogni idea di compromesso e solo dopo un lungo martirio forse diventeranno ragionevoli e ammissibili quelle concessioni che da principio si giudicavano ripugnanti e insopportabili. La guerra è innanzitutto un epidemia mentale.
Ed eccoci arrivati ai generali, ai comandanti in capo, alla gente potente, tonante e superciliosa degli Alti comandi: quelli che saltan su dall’Annuario e dalle poltrone quando le giunture delle società scricchiolano, la macchina è in moto e una porta di ferro si apre sul buio. Quelli che gridano, come lo spagnolo Millan Astray, con la pistola in pugno: abbasso la filosofia! Chini sulle loro carte misurano l’Ucraina o Gaza o l’Afghanistan e l’Iraq, terre e città pestate dalle bombe e dagli eserciti, come se fossero distese su un tavolo di obitorio, cadaveri congelati da cui cavare con arte ancora qualche litro di sangue. Curiosi pensieri vengono in mente osservandone la calma: il comandante e i suoi ufficiali, bravi e seri studiosi di tattica e di strategia, che minuziosi elaborano il modo di lanciare tonnellate di esplosivo in certi punti abitati da altri uomini, probabilmente bravi e intelligenti come loro.
David Petraeus mi sembra, a leggerlo, uno di quelli che in guerra indossa la divisa dell’ottimismo a scatto fisso, che porta a perdere le campagne e la faccia ma a mantenere il favore dei potenti e dei giornali. Di guerre ne ha perse due, Iraq e Afghanistan, e contro avversari primitivi, in ciabatte. Ma in fondo anche Napoleone, il “fatale dagli occhi d’aquila’’ fantasticato da Goethe e Beethoven alla fine della sua fiammeggiante epopea, come è finito? Sconfitto. I generali statunitensi! Strana razza: alcuni sono diventati perfino presidenti. Non c’è riuscito il vero, unico Cesare americano, MacArthur. Il Pacifico e il Giappone erano state le sue Gallie, poi dominato da isterismo tattico pretendeva in Corea di usar subito la Bomba. Lo pensionarono bruscamente, che tempi primitivi! oggi comanderebbe, con il suo garibaldinismo perentorio e pubblicitario, la Nato ‘’espansiva’’ e sarebbe la goduria degli inviati speciali. Poi avrebbe grasse occasioni di aver successo nel politicantismo e nei consigli di amministrazione. Petraeus, più modestamente, ha diretto la Cia. —