Corriere della Sera, 3 agosto 2024
Intervista a Gianni Bella
Da 14 anni per colpa di un ictus Gianni Bella è senza voce, un beffardo contrappasso in vita per un compositore che ha sempre preferito stare dietro le quinte, confezionando con le sue melodie successi per sua sorella Marcella e per Adriano Celentano, anche se non gli sono mancate le soddisfazioni personali come solista (Più ci penso, Non si può morire dentro). La mente è lucida come un tempo, ma muta. La voce in questa intervista è quella della figlia Chiara, che traduce in parole i suoi pensieri.
Montagne Verdi (1972) fu un successo. Eppure a Marcella non piaceva.
«Era scettica, al primo ascolto non rimase favorevolmente sorpresa e mi manifestò tutti i suoi dubbi: mi sembra un brano da bambini, va bene per lo Zecchino d’oro. Però durante la notte quella melodia le martellò la testa e le rimase dentro. Così cambiò idea».
Anche per Nell’aria (1983) ha dovuto convincerla.
«Il pezzo le piacque subito, ma il testo scandaloso la preoccupava, soprattutto il passaggio sulla gatta».
«La mia gatta è ancora lì, non parla ma dice sì». E in questo caso la gatta non era un micia.
«Eh no, io cercai di minimizzare, le dicevo di non pensare al doppio senso. Mogol, autore del testo, vedeva in Marcella una bellezza raffinata e non volgare, in quel periodo lei aveva assunto un look sexy e sbarazzino e quella canzone era perfetta interpretata da lei».
Tra i suoi successi da solista c’è invece Non si può morire dentro.
«Nel 1976 vinsi il Festivalbar e fu un’enorme soddisfazione, era una vittoria davvero decretata dalla gente, perché nasceva dalla risposta del pubblico sia attraverso le cartoline di voto sia attraverso i gettoni nei jukebox».
Sua sorella non le disse che poteva lasciarla a lei?
«In quell’occasione no. Ma successe più avanti, con L’emozione non ha voce che scrissi per Celentano».
Lei ha sempre preferito comporre che cantare, stare dietro le quinte. Ansia da palco?
«Sono un timido, un emotivo. Sono del segno dei Pesci, quindi penso di avere grande sensibilità e creatività, ma allo stesso tempo non sono mai stato un uomo da palcoscenico. Nella vita di tutti i giorni però ero l’opposto: facevo lo showman nelle serate, a cena, negli studi discografici. Mi piaceva fare battute, scherzare. Sul palco invece salivo e mi trasformavo: il piacere di essere lì non mi ha mai conquistato, non ero a mio agio».
È il motivo per cui i suoi Festival di Sanremo non furono granché...
«Lì era l’apoteosi dello stress. Una volta mi venne anche una febbre chiaramente psicosomatica. A differenza di mia sorella che riusciva a trasformare l’adrenalina in energia sana, io non ce la facevo».
È nato a Catania 77 anni fa, ma si è trasferito in provincia di Parma quando ha conosciuto sua moglie Paola.
«Anni 70, era ai tempi del Cantagiro, il nostro furgoncino si rompe, si assiepa una folla di curiosi tra cui spicca una studentessa: colpo di fulmine. Ci siamo sposati subito. Qui ho trovato lo stesso carattere spontaneo e generoso dei siciliani. Ma della mia terra mantengo l’orgoglio: io sono uno che vuole sbagliare in proprio. E a Catania torno ogni febbraio per ringraziare Sant’Agata per avermi fatto la grazia di vivere».
Da chi prese l’istinto musicale?
«Sono nato in una famiglia in cui la musica non era nel dna, mio padre aveva un banchetto di frutta e verdura, mia madre era casalinga. La svolta fu a 10 anni quando vinsi una chitarra a tombola, ho fatto tutto da autodidatta».
A chi si ispirava?
«A Jimi Hendrix, avevo anche io quel capello riccio arruffato. Ascoltandolo cercavo di imitarlo, andavo a orecchio e così ho imparato a suonare».
Un litigio storico tra fratelli?
«Qualche discussione, niente di che. Lei è l’interprete femminile dei miei brani, la voce giusta per ogni canzone. Certo la collaborazione con Celentano me la rinfaccia ancora scherzosamente».
Un momento da incorniciare?
«Il 1974, quando entrambi eravamo in classifica contemporaneamente, lei con Nessuno mai e nello stesso tempo io con Più ci penso. Ci superavamo ogni settimana, non credo sia mai capitata una cosa così a due fratelli».
In un’intervista una volta disse: «Davanti a me c’è solo Battisti, ma io sono più giovane».
Ride: «Ero molto sicuro di me».
Con Mogol ha instaurato un sodalizio fraterno lungo 40 anni. Il primo incontro?
«Grazie alla Nazionale cantanti, ascoltò alcune mie composizioni al piano e rimase colpito. Mi disse: ma sei quello che ho sentito al Festival o questo qui che sta suonando adesso?».
Discussioni, scontri?
«Le nostre discussioni sono sempre state sulla metrica perché Giulio non vuole adattare il testo alla musica, se gli piace una frase non la vuole cambiare. Era uno scontro tra testardi, la difficoltà più grande tra noi è sempre stata la mediazione, ma alla fine arrivavamo sempre al compromesso».
Prima di Mogol, per 10 anni l’autore dei testi sulle sue musiche era Giancarlo Bigazzi, che era anche la voce degli Squallor.
«Era un toscanaccio sanguigno, un artigiano, un sarto che cuciva le parole sulla musica. A un certo punto però ho sentito l’esigenza di cambiare, di vivere un’esperienza nuova. Collaborare con Mogol – che aveva scritto i testi di Battisti – era un traguardo, è stata una soddisfazione pazzesca».
Sono arrivati sei album con Celentano.
«Fu Mogol a introdurmi, Celentano cercava un compositore e gli fece il mio nome. Adriano stimolava la mia creatività, ogni giorno componevo una canzone nuova. Claudia era quella che beccava subito se un pezzo funzionava o meno, Adriano mi dava sempre la stessa risposta al primo ascolto: non so. Tornavo a casa e dicevo a mia moglie, anche oggi è un altro non so».
Come è lavorare con lui?
«Con me è sempre stato generoso, mi coccolava e viziava, Claudia aveva un’adorazione per me, con lui facevamo telefonate di ore, tra barzellette e risate. In studio ci divertivamo. Poi ci siamo persi con la malattia».
Mai uno screzio?
«Solo all’inizio ma non per colpa sua, sui giornali titolavano: ecco il nuovo brano di Celentano, ma c’ero anche io».
«Musiche di Gianni Bella, testo di Mogol, canta Celentano»: difendo la categoria, nel titolo tutta ’sta roba non ci sta... Piuttosto lei oggi come si sente?
«Vivo la malattia come una resa a quello che mi è capitato, ma sono felice e grato alla vita, sono contento di esserci ancora. Mi ha salvato il mio carattere sempre allegro e un po’ testardo. Certo il limite è la capacità di espressione, ma ho sviluppato una maggiore sensibilità verso le piccole cose, ho scoperto l’emozione della natura: guardo le rose in giardino, allungo lo sguardo al tramonto e sorrido per tanta bellezza».
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