Corriere della Sera, 3 agosto 2024
Biografia di Imane Khelif
«Sono nata nelle campagne di Tiaret, un villaggio dell’Atlante. Ho cominciato a boxare lì, poi i primi combattimenti in altre città algerine e poi all’estero. Vengo da una regione conservatrice e da una famiglia tradizionalista: il pugilato è roba da uomini, che una donna voglia praticarlo è quasi blasfemo. All’inizio ho faticato tanto, dovevo andare e tornare a piedi da casa alla palestra lontana 10 chilometri e tutti mi guardavano male».
Al centro di una clamorosa bufera mediatica, a Imane Khelif, la pugile algerina che giovedì ha battuto per abbandono la nostra Angela Carini, è stato offerto pochissimo spazio per presentarsi. Le parole che riportiamo sono estratte da una delle rare interviste di questa 25enne del Civil safety boxing club che parla arabo e francese e che da bambina per guadagnare qualche dinaro raccoglieva e rivendeva oggetti di metallo e aiutava la madre a cucinare e vendere cous cous in un mercato rionale.
Imane indossa i guantoni a 15 anni e si affaccia all’alto livello nel 2018 ma senza stupire: è 17ª ai Campionati del mondo in India mentre nel 2019 a Mosca non va oltre il 33° posto. Quinta alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021 (dove rischia di finire al tappeto con l’irlandese Harrington che la strapazza per 5 a 0), è argento al Mondiale di Istanbul 2023 dove un’altra irlandese, Amy Broadhurst, non le concede nemmeno una ripresa. Imane vince parecchio (mai per Ko) ma perde ben 13 volte su 50 incontri. Insomma, non pare un fenomeno.
La vicenda della sua squalifica (e di quella dell’atleta di Taipei Lin Yu Ting, anche lei Dsd, con «differenze dello sviluppo sessuale») ai Mondiali 2023 di Nuova Delhi merita un approfondimento perché alla prova dei fatti la tesi che circola in questi giorni, promossa anche dalla politica italiana («Khelif è stata bocciata dai severi regolamenti della federazione mondiale e assolta da quelli morbidi del Cio»), presenta molti punti deboli.
Iscritta in India al torneo dei Welter (dove c’era anche Angela Carini, subito eliminata), Imane arriva in semifinale con un percorso netto: supera per abbandono la keniana Friza, poi la russa Amineva (4-1), poi ancora l’uzbeka Kamidova (5-0) e infine la thailandese Suwannapheng con un altro 5-0, guadagnando la finalissima con la cinese Liu Yang, una tosta. Ma il 25 marzo, alla vigilia del match per l’oro, Khelif riceve nella sua stanza d’albergo un controllo medico a sorpresa con prelievo del sangue. Poche ore dopo viene espulsa dal torneo per mancato rispetto delle «regole di partecipazione».
Che test ha subito Kelif e perché è stata espulsa? La Iba (cacciata mesi fa dal Cio per malversazioni e sollevata dal ruolo di organizzatrice del torneo olimpico) rifiuta di spiegarlo, adducendo motivi di privacy e ammettendo solo che «non ci si è basati sui valori di testosterone». Approvata all’unanimità e senza discussioni dal Council della Iba, la proposta di squalifica è arrivata a sorpresa poche ore prima della finale dal segretario generale e dal presidente Umar Kremlev, pupillo di Putin. Khelif viene spedita a casa, la thailandese Suwannapheng, che lei aveva battuto, promossa in finale.
Il presidente del Council che approva la decisione si chiama Pichai Chunhavajira, è thailandese come l’atleta e vicinissimo a Kremlev. Discorso speculare per la categoria 60 chili, dove l’atleta di Taipei Lin Yu Ting viene cacciata dopo aver perso la semifinale con la kazaka Ibragimova. Le spetterebbe il bronzo (la boxe ne assegna due) che invece va alla bulgara Staneva, eliminata nei quarti. Chi cerca pezze d’appoggio regolamentari per spiegare i provvedimenti (che appaiono sempre di più come arbitrari e immotivati) non le troverà: la federazione internazionale di boxe ha promulgato uno schematico regolamento sulla partecipazione degli atleti intersex soltanto sei mesi dopo quei Mondiali. Difficile giustificare la retroattività dell’espulsione che appare sempre di più come frutto di un’azione politica mirata.