La Lettura, 3 agosto 2024
Storia della risata
Jorge da Burgos – il vecchio monaco cieco che veglia, arcigno, sulla labirintica biblioteca del Nome della Rosa – è ossessionato dal potere satanico e immorale del riso, al punto da avvelenare le pagine dell’unica copia esistente del misterioso secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato appunto alla commedia e al ridere. Umberto Eco erge Jorge a difensore della teoria del riso come espressione di superbia e senso di superiorità verso gli altri, sostenuta da Platone prima, da Thomas Hobbes e Henri Bergson poi. Secondo questa tradizione, il riso è derisione: una forma di cinico scherno in cui non si ride con qualcuno, ma di qualcuno. I tedeschi hanno la parola Schadenfreude per indicare chi ride e gode delle sciagure altrui, di fallimenti, goffaggini, fragilità. Nel celebre saggio sul riso, Bergson lo considera una punizione sociale contro l’inadeguatezza, un castigo contro chi non è conforme.
Forse l’antica adesione a questa visione negativa del riso è alla base della reazione contemporanea contro di esso: il politically correct che intende la comicità come offesa, e la rende di fatto inammissibile, prendendola alla lettera e censurandola. Non sarebbe stato d’accordo Luigi Pirandello, che intravedeva l’origine del riso nel piacere misto a sorpresa che proviamo quando le nostre aspettative su una certa situazione vengono disattese (è il segreto di molte barzellette) e interpretiamo l’incongruenza con un senso di compassione (più che di scherno) verso le debolezze umane e le stranezze del mondo.
Ora abbiamo una teoria evoluzionistica del riso, proposta da due brillanti ricercatori italiani, il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi nel libro Perché ridiamo? (il Mulino). Si comincia allargando il quadro. Non ridono solo gli esseri umani. Quando giocano o ricevono il solletico, i ratti emettono vocalizzazioni a ultrasuoni rapidissime che sono l’equivalente del nostro riso, un comportamento che hanno sviluppato indipendentemente da noi e che fu scoperto dal neuroscienziato estone-americano Jaak Panksepp. Gli umani e gli altri primati hanno invece ereditato il riso da un antenato comune.
I bonobo per esempio fanno giochi circensi durante i quali ridono continuamente e giochi erotici durante i quali si sorridono reciprocamente. Nella società matriarcale della iena maculata – detta anche iena ridens, un carnivoro dell’Africa subsahariana che gode ingiustamente di cattiva fama – le risate, cioè espressioni rilassate a bocca aperta associate a suoni acuti, regolano le interazioni ludiche in giovani e adulti. Il riso dunque è una questione animale e le somiglianze riguardano anche le espressioni facciali: angoli della bocca all’insù, denti scoperti, guance arricciate che formano rughe attorno agli occhi.
Il prorompere in una risata è un comportamento involontario, incontrollato, che unisce il mentale e il fisico. C’è in tutte le culture umane. Quando è convulso, alla Joker, il riso può essere patologico e associato a diversi disturbi neurologici. Ma è difficile da studiare, perché nessuno in laboratorio riesce a esprimerlo in modo spontaneo. Per fortuna esiste la serendipità. Mentre alcuni neuroscienziati (anche italiani, dell’ospedale Niguarda di Milano) stavano lavorando a stimolazioni con elettrodi che attivano piccole aree cerebrali, per comprendere e curare l’epilessia resistente ai farmaci, osservarono cosa succede nel cervello quando ridiamo. La stimolazione di una parte specifica della corteccia cingolata anteriore genera (in collaborazione con una rete complessa di altre aree) sia l’espressione del sorriso e della risata sia la sensazione soggettiva di allegria.
Ridere fa bene: rilascia oppioidi endogeni e ossitocina. Quando vediamo qualcun altro ridere, il nostro cervello in automatico simula internamente una risata, per comprenderlo ed entrare in risonanza. Nella crescita, emerge durante le prime interazioni fra madre e figlio, anche nei primati, attraverso il solletico, il gioco, gli scherzi. Tre indizi, questi, della natura sociale profonda del riso. Palagi e Caruana nel loro libro, dedicato al grande etologo della socialità animale Frans de Waal, uniscono dati neurali e comportamentali per rispondere alla domanda più difficile: perché si è evoluto il riso?
A loro avviso, ridere non è soltanto un improvviso sfogo di energia da parte del sistema nervoso, a seguito di un rilascio di tensione. Il riso ha origini sociali e si sarebbe evoluto come strumento di condivisione non linguistica di stati d’animo tra compagni di gruppo, come quando un animale sbadiglia e presto tutti i suoi simili fanno lo stesso. Succede anche a noi umani e persino con specie diverse: provate a sbadigliare con il vostro cane!
Ebbene, pure la risata è contagiosa, in Homo sapiens e in molti altri primati. Il vantaggio è chiaro: faccio mio e ripeto ciò che vedo sulla tua faccia, così entriamo in sintonia e ci coordiniamo, nel gioco e in altre attività sociali. Il riso insomma è uno strumento manipolativo che ha le funzioni affiliative di sintonizzare i membri di una comunità attorno a standard di comportamento, ridurre il livello di ostilità e comunicare l’assenza di pericoli. Anche cani e suricati ridono insieme quando giocano tra loro, entrando in risonanza. Quindi, più che a esprimere il proprio stato d’animo o a rimarcare la comicità di un contenuto, le risate influenzano il comportamento degli altri. Al pari del grooming (la pulizia del mantello o della pelle dei mammiferi) e del gossip, il riso secondo Caruana e Palagi è un collante sociale.
Come tale, non è necessariamente connesso al comico e allo humour, tipicamente umani, che richiedono competenze cognitive più complesse. Il riso emozionale infatti li precede, essendo evolutivamente molto antico. Diverso è il caso del riso volontario, che sgorga da altre aree cerebrali e svolge le più svariate finalità sociali, questa volta con maggiore variabilità da cultura e cultura: si ride apposta per attuare le proprie strategie sociali; per negoziare; per abbassare la tensione; per sottomissione; per mentire; per mostrarsi superiori; in ogni caso per influenzare il comportamento altrui. Particolarmente interessante è la risata di cortesia tra due persone che chiacchierano, senza che vi sia nulla di realmente comico in ciò che si stanno dicendo: è una sorta di punteggiatura del discorso che dà la cadenza, le pause, le sottolineature. Più una società è multiculturale e più si ride. Del resto, se capiamo una battuta significa che possediamo i codici culturali di decodifica dei nostri pari (e se non l’abbiamo capita, a volte ridiamo comunque per non sentirci esclusi).
Caruana e Palagi ritengono che la funzione di tutti i tipi di riso, quale che sia il contesto, sia sempre stata l’interazione sociale, più che l’espressione di emozioni. Ma anche manifestare uno stato emozionale è un atto comunicativo. Il fatto poi che una vocalizzazione si sia evoluta con la funzione di rinforzare legami sociali non significa che ancora oggi svolga sempre e solo quella funzione. L’evoluzione ricicla il vecchio per convertirlo a usi anche del tutto inediti, come nel passaggio dal riso affiliativo animale al riso volontario, e da questo all’umorismo più cerebrale di un Woody Allen.
Questa visione sociale rende il riso sostanzialmente uno strumento di conformismo di gruppo e lo scherno una strategia per rafforzare la coesione tribale prendendo di mira chi fa parte di un gruppo rivale. La teoria dell’interazione sociale spiega bene l’archeologia del riso, ma oscilla tra il voler escludere le spiegazioni alternative e il voler integrarsi con esse. Il futuro ci dirà se questa lettura naturalistica del ridere – che tende a ridurre l’importanza delle dimensioni linguistiche e cognitive, come se vi fosse una contraddizione con quelle biologiche – sarà in grado di includere tutte le elusive sfumature del riso e di resistere ai controesempi.
A tutti del resto è capitato di ridere da soli, per motivi talvolta incomprensibili, senza alcuna apparente funzione sociale. Soprattutto, non andrebbe sottovalutato il ruolo storico della libera satira sociale e del comico che sfida il potere: è un riso cattivo, anticonformista, sarcastico e dissacrante, spesso individualistico, di ribellione e rovesciamento carnevalesco. Forse Jorge da Burgos non aveva tutti i torti a diffidarne, chiuso nella sua biblioteca. Essere seppelliti da una risata è ciò che temono di più i prepotenti e i capipopolo.