La Lettura, 3 agosto 2024
Notrifobia, ovvero la paura di non avere un viaggio in programma
Gli appassionati di neologismi in rete ne troveranno uno che comincia ad affermarsi in questa torrida estate: notrifobia. Un ibrido anglo-ellenico che tiene insieme la paura e il viaggiare. Più precisamente, il termine designa il senso di angoscia che si prova quando non si intravede, nel proprio orizzonte, la programmazione di un viaggio (no-trip). Da non confondere con la tripofobia (altro termine abbastanza recente, coniato nel 2005, che contiene invece la parola greca trýpa, buco, e che designa appunto la paura scatenata dalla visione di sequenze di perforazioni, come ad esempio quelle di un alveare di api o quelle presenti nelle spugne), con la quale però – come vedremo – condivide, almeno in senso metaforico, qualche elemento di significato.
Torniamo quindi alla notrifobia. Che il viaggio e la paura intrattenessero un fitto dialogo tra loro fin dal momento in cui l’essere umano cominciò a spostarsi per terra e per mare, affrontando l’ignoto, è un dato pacifico e fin troppo acclarato. Ora, invece, questo rovesciamento di prospettiva si rivela inquietante figlio del nostro tempo, e della società (quantomeno la parte benestante) che abita questa parte del mondo. La paura di non poter viaggiare, di assistere impotenti allo stratificarsi di un deserto nelle nostre vite frenetiche diventa un fantasma da allontanare, in nome dell’imperativo categorico del riempire il vuoto. Di saturare – appunto – ecco la contiguità metaforica con l’altra fobia di cui abbiamo accennato, lo spazio costituito da buchi da riempire. Tradendo, paradossalmente, il significato più profondo della vacanza, che del vuoto (vacuum) sarebbe parente e alleata.
Ecco allora la corsa alla prenotazione, il bisogno di divenire parte di quel magma umano che si spalma nei gate degli aeroporti, la necessità di una fuga che diventa un rotolarsi nell’identico, ben lontana da quel ritrovarsi che è propizio alla salute della mente e del corpo. L’inganno è in agguato. Bastano ad esempio pochi click e un portafoglio a fisarmonica per approdare alle isole che soltanto ormai in un immaginario sbiadito sono rimaste abitate dagli dei dell’Olimpo e che ora accolgono ben più addomesticate divinità: quelle della moda e del lusso, della cucina gourmet, degli yacht che profanano impeccabilmente il regno di Poseidone, delle discoteche dove si tira a far mattino, ma difficilmente per assistere all’eterno miracolo dell’alba e sentirsi inclusi nello stupore del mondo. Le isole dell’Egeo diventano così pianeti di un universo in cui diventa difficile fare autentica esperienza dell’altro, quello che ogni isola e ogni mare portano inscritto nel proprio essere, ma si gusta una volta e un’altra ancora la propria appartenenza al regno dell’Identico. Così, da spazi dell’altrove e della periferia, le isole diventano il centro che attira la moltitudine di over-tourist in cerca di autoriproducibilità.
Ben lontano da tutto questo, un inedito «miracolo greco» avviene invece in un altro spazio di quella terra, al confine dell’Albania e della Macedonia del Nord. Una Grecia diversa e tuttavia ancora Grecia, solitaria e malinconica erede di un incrocio di cammini che la rendono, agli occhi di chi guarda, immagine di autentica alterità. Qui è ancora, di nuovo possibile assaporare il silenzio, e non quello che nell’era dell’iper-comunicazione nasce solo dal guasto, dalla defaillance della macchina, dell’arresto di trasmissione. Qui il silenzio risuona come una nostalgia, prova a esaudire il nostro desiderio di ascoltare senza fretta il fruscio del mondo. Qui diventa più facile rinunciare a occupare, con il rumore e la parola, il terreno mentale dell’altro: forse per questo perfino i rumori della guerra sono lontani, e i loro echi si rifrangono non sulle coste delle isole egee, ma sulle cime di alberi secolari, quelli che circondano il grande lago di Prespa, formato a sua volta da due laghi interconnessi, il Grande e il Piccolo Prespa: un preziosissimo patrimonio di biodiversità, che pure non manca di essere minacciato dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento.
Il fascino arcaico di questo grande bacino è dato forse anche dal fatto di costituire, oltre che il simbolo dei problemi etnici e culturali che fecero seguito alla caduta dell’Impero ottomano, anche un interessante crocevia di genti e di culture. Qui l’esperienza della migrazione è totalizzante: coinvolge esseri umani e volatili, specie arboree e popoli. Prespa in lingua macedone significa «bufera»: nome che alcuni legano all’effetto ottico che si crea in inverno quando il lago gela e si copre di neve, mentre altri associano alla leggenda d’un principe innamorato di una ninfa dei boschi che, nonostante fosse stato da lei avvisato che il loro matrimonio avrebbe portato una catastrofe, si ostinò nella volontà di sposarla: il cielo s’aprì e rovesciò tant’acqua da distruggere una ricca città e formare il grande lago.
Per chi è ormai abituato a sacrificare la conversazione alla pura connessione, sarà un piacere imprevisto fare due chiacchiere con Michail, uno dei pescatori (Psarades) che danno il nome al villaggio sul lago grande, e che, non dimenticando anche la propria vocazione agricolo-pastorale, allevano mucche nane in mezzo ai canneti. Ed è paradossale che, in un luogo che ha conosciuto una trentennale controversia diplomatica sul nome della repubblica di Macedonia (sia lo stato della ex Jugoslavia che la Grecia rivendicavano l’uso del nome Macedonia e soprattutto si proclamavano eredi della Macedonia classica e del suo sovrano Alessandro Magno), controversia risolta solo nel 2018 con l’accordo di Prespa che ha ribattezzato lo stato della ex Jugoslavia «Repubblica della Macedonia del nord», sembri essersi sopita su queste rive la controversia tra rumore e silenzio.
Qui pare non esserci posto per quell’esercizio di potere, quell’abuso nei confronti dell’altro che il rumore stesso costituisce. Mentre l’ideologia della comunicazione assimila il silenzio al vuoto, alla rovina (e questo vale anche nelle affollatissime isole ormai nutrite di musica ad altissimo volume), da queste parti si sperimenta come il silenzio, che presuppone un’interiorità, una meditazione, un distanziamento dalla turbolenza delle cose, sia nemico giurato dell’Homo communicans, sul quale il rumore non molla mai la presa, e diventi una sorta di atto di resistenza.
In questi luoghi, è interessante andare a zonzo lungo il cammino del linguaggio per accorgersi che il meticciato di termini ed espressioni che recano tracce di almeno tre lingue (greco, albanese, macedone) è estremamente produttivo, e allo stesso tempo sarebbe inconcepibile senza, appunto, quel silenzio che qui non solo si sente – come sarebbe proprio della fisiologia percettiva che lo riguarda – ma si vede, si tocca, si annusa. Su queste rive, si manifesta non come qualcosa di contrario alla parola, né come un vuoto da riempire, ma come una tonalità pacifica della presenza, un respiro tra le parole. Ed è ancora possibile saziare insieme il corpo e lo sguardo mentre si degusta una tsuknidopita, la torta di verdure selvatiche raccolte intorno al lago, e al contempo si ammirano le icone dipinte sulla roccia da mani antiche di asceti che sceglievano questi luoghi come sedi del loro eremitaggio. Poco lontano dal villaggio dei pescatori, un ponte pedonale che si allunga sulla Piccola Prespa conduce all’isolotto di Aghios Achillios, perla nascosta in cui un sentiero solitario conduce all’omonima, splendida basilica bizantina a tre navate, costruita tra il 986 e il 990 da Samuel, zar dei bulgari, per ospitare le reliquie di Sant’Achillios. Ora in parte distrutta, si dice fosse seconda per ampiezza solo alla Santa Sofia di Costantinopoli, con cui oggi non condivide certo gli stuoli di visitatori. È ancora una sorpresa per gli occhi il piccolo borgo di Aghios Germanos, con la chiesetta bizantina del X secolo e gli affreschi che testimoniano l’arte dei secoli successivi.
Non solo i villaggi, ma anche le città che si trovano non lontane da questi borghi nascondono una riserva di sorpresa, costringendoci a rivedere alcune anguste categorie di Grecia come agglomerato di siti archeologici e di casette bianche e blu. Tra queste città, Florina, la più settentrionale di quelle occupate e poi annesse dall’esercito greco durante le guerre balcaniche del 1912-1913; da sempre città di frontiera, ebbe per questo un ruolo decisivo anche nei conflitti successivi: durante la guerra civile tra il 1946 e il 1949, il monte Grammos che la sovrasta fu la base dei partigiani greci schierati contro l’esercito governativo. Decadente ed elegante, nei suoi palazzi che costeggiano le due rive del fiume Sakoulevas e nei suoi caffè, uno dei quali, giocando sull’anagramma del nome della città, si chiama come il ben più famoso caffè veneziano, Florina regala il fascino della frontiera e il senso di labilità del confine.
Un’altra sfumatura dell’inatteso si respira a Kastorià, città dall’atmosfera balcanica, che si specchia nelle acque del lago Orestiada: secondo la leggenda, Oreste si sarebbe rifugiato qui dopo avere ucciso la madre Clitemnestra. La celeberrima saga degli Atridi toccò dunque anche questi luoghi remoti facendoli dialogare con i fasti di Micene. Unita alla terraferma da un piccolo istmo, Kastorià appare immersa in uno scenario di grande pace, decadente e romantico, che alla struggente bellezza del lago aggiunge la preziosità delle chiese bizantine e paleocristiane, perle di rara bellezza. Imperdibile, tra queste, quella del monastero della Panagia Mavriotissa (la Madonna nera), fatta costruire nell’XI secolo da Alessio Comneno, coimperatore insieme al padre Giovanni II, per commemorare la vittoria sui Normanni. La presenza di un monumentale platano a poca distanza consente di visualizzare quel dialogo tra natura e cultura che è ancora vivo e palpitante in questi luoghi.
Da sempre terra di minoranze, questa parte della Grecia resta fedele alla sua vocazione minoritaria anche sul fronte del turismo. Cosa che non dispiace. Perché qui il paesaggio è fatto anche di assenza, di qualcosa che non esiste più o che mai è esistito, e la bellezza sembra essere la miscela del visibile con quanto non ci è dato di vedere. Perciò va cercata con più tenacia, più desiderio, fino a coglierla – con le parole del poeta greco Titos Patrikios – nel suo silenzioso «dilagare come un carcinoma, infettando i passanti di speranza».