La Lettura, 3 agosto 2024
Il riciclaggio dei nazisti
Il professor Ennio Di Nolfo, caposcuola della Storia delle relazioni internazionali in Italia, era solito sconcertare i suoi studenti con affermazioni tanto lapidarie quanto contrarie al senso comune. Una tra le più note, pronunciata proprio quando l’uditorio attendeva chissà quali rivelazioni sulle trame più oscure della guerra fredda, recitava: «Io non credo ai servizi segreti». L’obiettivo si intuiva soltanto in seconda battuta: invitare gli aspiranti storici a non cadere nel tranello di prestare ai servizi segreti l’onnipotenza che una mole sconsiderata di narrativa, filmografia e quant’altro attribuisce loro. Essi, al contrario, falliscono spesso e clamorosamente l’obiettivo primario di avvisare i rispettivi governi su ciò che sta per succedere e possibilmente nel prevenirlo. Dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo all’invasione nazista dell’Unione Sovietica, da Pearl Harbor al 7 ottobre, una serie ininterrotta di previsioni mancate, di errori di prospettiva, di sottovalutazioni ha macchiato la reputazione anche dei servizi più rinomati; la vecchia massima secondo cui i successi dell’intelligence sono tali perché non si vedono, mentre i fallimenti sono ben più vistosi, può al massimo mitigare il bilancio, non ribaltarlo.
Tolto di mezzo il mito dell’infallibilità, ciò che rimane è più importante e al contempo meno evidente: da sempre i servizi hanno innanzitutto il compito di raccogliere informazioni da ogni parte, di incorporarle all’interno di un’interpretazione che dia loro senso, e di mettere il risultato a disposizione dei loro referenti istituzionali. In tal modo essi godono di un potere enorme nel dare forma alle immagini degli amici come dei nemici, delle urgenze come delle previsioni di lungo periodo.
In questa direzione sembrano puntare due volumi pubblicati di recente: Gli uomini di Himmlerdi Gianluca Falanga (Carocci) e Fuggitivi dello studioso israeliano Danny Orbach (Bollati Boringhieri). Ad accomunarli, come è evidente già dai titoli, è la storia del tentativo di molti fedeli e ferventi membri dell’intelligence di Adolf Hitler di riciclarsi nel dopoguerra al servizio di altri Paesi, portando in «dote» le informazioni raccolte e le reti di contatti costruite mentre agevolavano l’opera di consolidamento ed espansione del Reich. Entrambi i volumi si fondano su un’ampia documentazione raccolta in archivi di vari Paesi, talvolta messa a disposizione a seguito di provvedimenti giudiziari o riemersa per un caso fortuito, come spesso accade con fonti simili.
Figura centrale ed emblematica per entrambe le narrazioni è il generale nazista Reinhard Gehlen, capo dei servizi segreti del Reich sul fronte orientale durante la guerra, volenteroso complice degli orrori perpetrati dal regime in quello scenario. Questo non gli impedì di iniziare a organizzare il proprio futuro già nelle fasi finali della guerra, offrendo sé stesso e il proprio «patrimonio» agli Stati Uniti, affamati di informazioni e contatti nel territorio progressivamente occupato dall’ex alleato di guerra, l’Unione Sovietica, in procinto di diventare avversario in una nuova partita globale.
I volumi si diffondono in dettagli sul modo in cui Gehlen, con l’aiuto del suo fido collaboratore Gehrard Wessel, riuscì abilmente a utilizzare la fiducia concessa dalle autorità statunitensi per mettere in piedi un’organizzazione che funzionò come una lavatrice per ripulire la fedina penale di vecchi camerati e collaboratori, arruolati come indispensabili per i nuovi compiti. E tuttavia, l’obiettivo finale di Gehlen era quello di contribuire alla rinascita della Germania e di mettersi al servizio di essa, ovviamente influenzando le modalità del processo. Su questo, soprattutto Falanga affronta senza remore le responsabilità del cancelliere Konrad Adenauer, che si avvalse a lungo dei servigi di Gehlen anche per controllare avversari interni o elementi considerati poco affidabili nel contesto del dopoguerra, come lo stesso futuro cancelliere socialdemocratico Willy Brandt. Soltanto negli anni Sessanta (che si confermano il vero spartiacque nella storia tedesca) inchieste e indagini rivelarono come ancora una cifra di poco inferiore al 20 per cento del personale dei servizi segreti della Repubblica federale fosse composta da ex graduati delle SS, «uomini di Himmler» responsabili di crimini di ogni genere; ciò non impedì comunque a Gehlen di andare regolarmente in pensione con il grado di direttore ministeriale.
Nel libro di Orbach lo sguardo si allarga a molte altre realtà che si contesero l’ex personale nazista per il supposto valore delle informazioni che poteva fornire in merito ai nemici del momento. Non soltanto gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, né ovviamente la controparte sovietica o i Paesi di nuova indipendenza: a lasciare esterrefatti è la vicenda del «patto faustiano» che per un certo periodo portò persino alla collaborazione tra i servizi israeliani e Walter Rauff, ideatore dei «camion della morte», camere a gas su ruote utilizzate per lo sterminio di centinaia di migliaia di persone, tra cui ovviamente molti ebrei. Una coincidenza che i suoi reclutatori hanno sempre affermato in modo poco plausibile di non aver conosciuto all’epoca, tanto che – conclude amaramente Orbach – il motto dei servizi segreti di tutto il mondo dovrebbe essere «beata ignoranza».
Estrapolando dalla mole di personaggi e situazioni di cui i libri sono ricchi, due sono le considerazioni da trarre dalla lettura. Innanzitutto, l’abilità nel proprio riciclaggio non coincideva necessariamente con la capacità di fare bene il proprio lavoro: il reclutamento si rivelò fallimentare in più occasioni, a cominciare dalle proteste di piazza di Berlino Est nel 1953, che non soltanto il servizio di Gehlen non seppe prevedere, ma che costarono la vita ad alcuni dei suoi agenti in loco, prontamente smascherati e arrestati. Più ancora, la natura mercenaria dell’operazione fu esposta dai continui cambi di casacca e dal numero incalcolabile di agenti doppi (come Wolfgang Höher e Hans Sommer), tripli o quadrupli che, in fin dei conti, erano avventurieri al servizio di sé stessi, quindi pronti a offrirsi al miglior offerente, compresi i servizi dell’Est.
In secondo luogo, i due libri ci ricordano quanto fragili e scivolose fossero le basi su cui si costruì l’approccio occidentale al nuovo confronto a distanza con Mosca. «Le inquietudini provocate dai fuggitivi nazisti durante la prima fase della guerra fredda non erano ascrivibili alle loro azioni dirette, bensì alla storia di cui erano ritenuti portatori, e turbarono non solo l’opinione pubblica ma anche soggetti bene informati come i capi dell’intelligence e i dirigenti politici». I due libri rappresentano quindi un inizio stimolante e necessario dell’esplorazione dei paradigmi attraverso i quali gli occidentali videro l’Unione Sovietica e la potenziale minaccia che la sua stessa esistenza comportava. In sostanza: indipendentemente dalle responsabilità di quest’ultima, il paradigma attraverso cui è stata vista, valutata e affrontata l’Unione Sovietica si fondava anche sulla griglia interpretativa di chi aveva partecipato attivamente a organizzare l’Olocausto e la devastazione dell’Europa. E questo è un fatto che, a distanza ormai di tanti decenni, merita attenzione e ulteriori indagini. Che si creda ai servizi segreti o meno.