La Lettura, 3 agosto 2024
Intervista a Heinrich August Winkler
Heinrich August Winkler è, da quattro decenni almeno, una voce critica della Germania e uno dei suoi più rispettati intellettuali. A 85 anni, nel marzo scorso, una sua lettera – firmata con altri quattro storici —, in cui definiva la politica del cancelliere Olaf Scholz sull’Ucraina «arbitraria, erratica e fattualmente sbagliata», è stata ripresa il giorno dopo da tutti i principali giornali europei. Ma Winkler crede nell’utilità pratica della ricerca. E alla domanda su che cosa consiglierebbe a un giovane storico, risponde di orientarsi sulla massima di Hermann Heller, costretto all’esilio da Hitler nel 1933: «Senza un intento in ultima analisi pratico della ricerca non possono esserci, nella dottrina dello Stato, domande feconde né risposte fondamentali». È la stessa che troviamo in epigrafe al suo ultimo libro, I tedeschi e la rivoluzione (Donzelli), da poco uscito in Italia.
Winkler è nato a Königsberg, come Immanuel Kant. E come milioni di tedeschi ha lasciato con la madre i territori della Prussia orientale, persi per sempre per la Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Ha aiutato i tedeschi a fare i conti con il nazismo – in quella disputa tra gli storici (Historikerstreit) che ha segnato gli anni Ottanta e fissato un consenso nazionale che vale tuttora, e che lui ha dominato. Ha scritto una Grande storia della Germania che parte da Giulio Cesare ed è, come si dice, il testo di riferimento per i germanisti, e un’ancora più «monumentale» Geschichte des Westens (Storia dell’Occidente), che in tedesco arriva a 4.600 pagine.
Per contro l’ultimo libro, introdotto da un eccellente saggio di Angelo Bolaffi, ha un passo diverso. Corto (140 pagine), denso, rigoroso: potrebbe essere un testamento, se non fosse prematuro. E invece è la «miglior storia breve» per chi vuole capire la Germania di oggi. Risponde anche a una domanda che ha impegnato Winkler per tutta la vita: perché la Germania ha tardato così tanto a diventare Occidente? Parte di quel «progetto normativo», nato dalle rivoluzioni americana e francese «e ora minacciato dall’esterno e dall’interno»? Ovviamente, la risposta non può che essere di rilevanza pratica.
Professor Winkler, la Germania è l’unica grande democrazia che non affonda le sue radici in rivoluzioni di successo. Ha invece conosciuto, dice lei, solo «rivoluzioni dall’alto». Quale impatto ha avuto questo sulla storia, e sulla psiche, tedesca?
«Rivoluzione dall’alto è il termine con cui lo storico tedesco Rudolf Stadelmann definì nel 1948 l’assolutismo illuminato del re prussiano Federico II il Grande. Fu, in ogni caso, un’esperienza determinante. La Rivoluzione francese del 1789 affascinò solo per breve tempo la borghesia colta tedesca. Il Terrore giacobino rafforzò la convinzione della maggior parte degli intellettuali tedeschi che le riforme dall’alto fossero preferibili a una rivoluzione violenta dal basso. Nella rivoluzione del 1848-1849, i liberali e i democratici tedeschi non riuscirono a raggiungere il loro doppio obiettivo di unità e libertà. La risposta storica fu una nuova “rivoluzione dall’alto”: l’unificazione della Germania ad opera del primo ministro prussiano Otto von Bismarck attraverso le guerre del 1866 contro l’Austria e del 1870-1871 contro la Francia. “Rivoluzionaria” fu in particolare la legge elettorale, generale ed egalitaria per gli uomini e molto progressista per l’epoca, che Bismarck introdusse nel 1867 nella Confederazione del Nord e nel 1871 nell’Impero tedesco. Fu un bel pezzo di democrazia. Tuttavia, la Germania ottenne un governo parlamentare solo mezzo secolo dopo, all’ombra della sconfitta militare nella Prima guerra mondiale, nell’autunno 1918. La democratizzazione avvenne quindi in tempi sfasati: precoce democratizzazione del diritto di voto, tardiva parlamentarizzazione del sistema di governo».
E con quali conseguenze?
«La parlamentarizzazione dell’Impero tedesco nell’ottobre del 1918 arrivò troppo tardi e fu troppo incompleta per poter ancora prevenire una rivoluzione dal basso. Nella rivoluzione tedesca del 1918-1919, visto il grado di democrazia già raggiunto, poteva in sostanza trattarsi solo di introdurre più democrazia, per esempio con il suffragio femminile. Mancavano invece tutte le premesse per una trasformazione sociale totale come in Russia dopo il 1917. Fin dall’inizio vi furono contro la democrazia parlamentare della Repubblica di Weimar forti riserve della destra nazionalista, che denigrava il nuovo sistema politico come un prodotto della sconfitta, una forma di governo imposta delle potenze vincitrici occidentali, e non-tedesco. Quando la democrazia parlamentare fallì nella primavera del 1930 e la Germania passò poco dopo a un sistema presidenziale semi-autoritario, Adolf Hitler, il leader dei nazionalsocialisti, poté raccogliere con crescente successo i frutti della democratizzazione sfasata della Germania. Da un lato, appellandosi al diritto di partecipazione del popolo sancito dai tempi di Bismarck sotto forma di suffragio universale, ora di fatto lettera morta. Dall’altro, facendo leva sui diffusi risentimenti verso la democrazia parlamentare, lo “Stato dei partiti”. Una situazione che, con la miseria di massa seguita alla crisi economica mondiale, contribuì in modo significativo a rendere i nazionalsocialisti il partito più forte».
Nel suo celebre libro Sociologia della Germania contemporanea, Ralf Dahrendorf sostenne che il nazismo compì una rivoluzione sociale: in un certo senso modernizzò il Paese, staccandolo con la violenza dalla tradizione.
«La comunità del popolo (Volksgemeinschaft), dipinta dai nazionalsocialisti, era in primo luogo propaganda, ma ebbe anche taluni effetti livellanti. La coscienza di classe dei lavoratori fu indebolita in modo duraturo. Il potere delle vecchie élite, soprattutto dei grandi proprietari terrieri a est dell’Elba, che avevano aiutato Hitler a diventare cancelliere nel 1933, fu spezzato. La “rivoluzione da destra” di Hitler fu soprattutto un rivolgimento politico. Portò alla distruzione dello Stato di diritto e dello Stato costituzionale, quale era la Germania da ben prima del 1918, instaurando una dittatura totalitaria. Un vasto sconvolgimento sociale si verificò con la sconfitta militare del Terzo Reich nella Seconda guerra mondiale. La perdita dei territori orientali al di là dell’Oder e del Neisse, la fuga e l’espulsione dei tedeschi che li abitavano e la divisione della Germania dopo il 1945 segnano una profonda cesura nella storia sociale tedesca».
Ma com’è possibile che la Germania, dove la democrazia arrivò così tardi, sia oggi più «democratica» di altri Paesi? Meno sottoposta alle spinte nazionalpopuliste di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia?
«Solo nel corso della seconda, stavolta totale sconfitta nel XX secolo, la Germania occidentale si è aperta su vasta scala alla cultura politica della democrazia occidentale. I crimini contro l’umanità del nazionalsocialismo non poterono essere perennemente rimossi. Il cambiamento culturale non fu lineare, durò decenni, accompagnato da accese dispute sulla storia tedesca. I padri e le madri della “Legge Fondamentale” di Bonn del 1949 erano “cittadini di Weimar” divenuti saggi. Avevano imparato dagli errori della prima Repubblica, creando una democrazia funzionante, rappresentativa e resiliente che dichiarò guerra preventiva ai suoi nemici. Il “miracolo economico” degli anni Cinquanta contribuì a far accettare diffusamente la Repubblica federale. Il rinnovamento degli anni del governo social-liberale (1969-1982) provò la capacità d’adattamento della “democrazia conservatrice” del 1949. Si sviluppò un patriottismo costituzionale che la Repubblica di Weimar aveva conosciuto solo in parte. E questo resta efficace ancora oggi: una grande maggioranza dei tedeschi approva la democrazia come si è sviluppata dopo il 1949».
Alternative für Deutschland, l’Afd, è secondo i sondaggi il primo partito nell’Est. Eppure, la ricchezza media non è inferiore a quella dell’Italia centro-meridionale. Come si spiega la crescita dell’estrema destra? C’entra il fatto che l’unica democrazia che hanno conosciuto è stata quella, molto breve, di Weimar?
«La Germania fu divisa dopo il 1945 non solo in due Stati, ma anche in due società e culture politiche. I tedeschi occidentali ebbero la fortuna di avere a che fare con potenze occupanti democratiche. I tedeschi orientali no. Ma la fortuna non è un merito. Nella Ddr c’era sì l’“antifascismo” come dottrina di partito e di Stato, ma non un libero discorso sociale sulle cause profonde della catastrofe tedesca come nella vecchia Repubblica federale. Così, in parte della società della Germania orientale, si poterono mantenere i vecchi pregiudizi nazionalisti tedeschi nei confronti della democrazia occidentale e della potenza guida dell’Occidente, gli Stati Uniti. Questo ha effetti fino a oggi. L’Afd fa appello a questi risentimenti, e lo fa con successo. Questa longue durée mentale dello Stato autoritario tedesco è un fenomeno che, secondo me, viene troppo poco considerato nella discussione sulla forza dell’Afd nella Germania orientale. Inoltre, quattro decenni di dittatura comunista continuano a esercitare un’impronta. Nella Ddr mancava ciò che Jürgen Habermas ha chiamato il “discorso privo di dominazione” (herrschaftsfreier Diskurs). Il modo di operare del partito comunista Sed, in ultima istanza, portava a un dominio dove il discorso non esisteva. Per troppo tempo dopo la riunificazione, da parte dei tedeschi occidentali, si è sottovalutato questo aspetto».
Da cosa origina la fascinazione della Germania per la Russia (che non ha paralleli nei Paesi europei)?
«Una certa affinità con la Russia zarista esisteva nel XIX e all’inizio del XX secolo tra i conservatori tedeschi. In questo senso si può parlare di una affinità elettiva, come esiste oggi anche nell’Afd. Nella Repubblica di Weimar, alcuni ambienti di destra nella diplomazia e nell’esercito, ma anche politici del centro borghese, cooperavano segretamente con la Russia bolscevica per liberarsi dalla dipendenza dalle potenze occidentali e tenere sotto controllo il rinato Stato polacco, se non addirittura cancellarlo dalla mappa. Il fanatico anticomunismo dei nazionalsocialisti non impedì a Hitler di allearsi, seppur temporaneamente, con Stalin a spese della Polonia e della cosiddetta “Europa intermedia”. Negli anni della guerra fredda, le correnti filosovietiche o filorusse nella Repubblica federale erano marginali. All’Est, nella Ddr, i comunisti locali erano molto più popolari dei loro compagni sovietici. L’ex presidente federale Joachim Gauck, originario della Germania orientale, ha recentemente parlato della sindrome di Stoccolma che persiste nella ex Ddr, lo sviluppo di una sorta di simpatia degli ostaggi per i loro carcerieri. Mantenere buoni rapporti con i russi faceva parte della strategia di sopravvivenza della Germania orientale. Si aggiunga la gratitudine verso Michail Gorbačëv, che nel 1990 acconsentì alla riunificazione della Germania».
Ci sono altri aspetti problematici?
«In parti dell’opinione pubblica tedesca il senso di colpa per la guerra d’aggressione del 1941 e le sue conseguenze hanno un ruolo importante. Spesso però ci si dimentica che ucraini e bielorussi hanno sofferto almeno quanto i russi durante la guerra e l’occupazione tedesca. Soprattutto i socialdemocratici ricordano continuamente l’Ostpolitik di Willy Brandt come modello di politica di pace e riconciliazione verso la Russia. Spesso però ignorano che l’Ostpolitik del primo cancelliere socialdemocratico era strettamente coordinata con la politica di distensione occidentale e affiancata da una politica di deterrenza militare. Sotto Brežnev, l’Unione Sovietica era interessata soprattutto a mantenere lo status quo del suo dominio in Europa. Putin non è un politico dello status quo, ma un revisionista radicale che cerca di ripristinare il più possibile il territorio e l’area di influenza dell’Unione Sovietica dissolta nel 1991».
Lei ha criticato la lentezza del cancelliere Olaf Scholz nell’affrontare la minaccia posta da Putin dopo l’aggressione dell’Ucraina. Che cosa sta sbagliando la Germania, e cosa non viene capito?
«La Zeitenwende (svolta epocale) di cui Olaf Scholz ha parlato il 27 febbraio 2022, tre giorni dopo l’inizio della guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, si sta rivelando un faticoso processo di ripensamento. Nelle ultime settimane si è avuta l’impressione che i necessari sforzi militari siano stati trascurati perché nel governo attuale ha vinto la posizione del ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, che ritiene prioritaria la riduzione del debito. In realtà, il fabbisogno di investimenti nella difesa e nelle infrastrutture della sicurezza esterna è ormai così grande che non potrà essere soddisfatto senza una riforma del freno all’indebitamento sancito nella Costituzione o di un nuovo fondo speciale. Di fronte all’opinione pubblica, il cancelliere e i partiti al governo devono spiegare molto più decisamente di quanto fatto finora perché la Germania debba spendere più soldi per la sua difesa rispetto agli ultimi decenni, quando la Bundeswehr, l’esercito, è stata colpevolmente trascurata. Anche il dispiegamento di missili americani a medio raggio in Germania, concordato al recente vertice Nato a Washington all’inizio di luglio, richiede urgentemente una chiara comunicazione pubblica. Proprio nella Germania orientale è necessario contrastare l’opinione diffusa che la guerra russa contro l’Ucraina non riguardi i tedeschi. Se noi, le democrazie occidentali, potremo vivere in libertà anche domani, dipende in larga misura dal fatto che l’Ucraina possa difendere la propria libertà e indipendenza contro l’aggressore russo».
Lei ha passato la vita a spiegare la storia tedesca. I nuovi arrivati dall’estero però non la conoscono, hanno valori e idee diversi, talvolta antisemiti. Si è molto discusso sulla decisione di inserire il riconoscimento dell’esistenza d’Israele tra i requisiti per diventare cittadini tedeschi. È opportuno?
«Chi emigra in Germania emigra anche nella storia tedesca. Le lezioni che la Repubblica federale ha tratto dalla storia di Weimar e della dittatura nazionalsocialista sono diventate parte della cultura politica della Germania. È a questo che deve orientarsi il lavoro di educazione politica. Lo Stato di Israele non esisterebbe senza il crimine contro l’umanità tedesco, l’assassinio di molti milioni di ebrei europei. Per questo motivo, la Repubblica federale deve riconoscere il diritto all’esistenza di Israele e il suo diritto all’autodifesa come parte della ragion di Stato tedesca e deve esigere tale riconoscimento anche da tutti coloro che vogliono acquisire la cittadinanza tedesca. Lo stesso vale per il rifiuto di ogni forma di antisemitismo. La ragion di Stato tedesca include anche l’adesione ai diritti umani inalienabili e alle norme del diritto internazionale generale. Per questo motivo, la Germania deve sostenere il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. La critica a una politica israeliana che contraddice il diritto internazionale è altrettanto legittima, anzi necessaria, quanto la condanna del terrore di Hamas».
Pensa che la Germania sia pronta a prendere la leadership politica dell’Europa, pur in coordinamento con altri Paesi, o è inutile aspettarselo? Angelo Bolaffi dice che la Germania ha trovato la sua pace rinunciando alla politica per concentrarsi sull’economia...
«La Germania ha una grande responsabilità per l’Europa a causa delle sue dimensioni, della sua potenza economica e della sua storia. Questa responsabilità può essere assunta solo in stretta collaborazione con le altre democrazie europee. In un’unione di Stati come l’Unione Europea non può esserci una posizione egemonica di un singolo Stato. Se sempre più Stati membri si spostano a destra e si sviluppano in “democrazie illiberali”, l’Ue non sopravviverà come comunità politica. In tal caso, la cooperazione bilaterale tra le restanti democrazie liberali europee diventerà più importante, sia che facciano parte dell’Ue o meno. Se le elezioni presidenziali americane di novembre porteranno a una vittoria del ticket Trump-Vance, l’Occidente transatlantico dovrà reinventarsi e riorganizzarsi. Le democrazie europee devono prepararsi a una tale eventualità».
Vede in atto forze disgregatrici in Europa così potenti da poter distruggere il progetto europeo?
«La domanda non riguarda solo l’Europa, ma l’Occidente nel suo insieme. Esso è in grado di autodistruggersi. Ma può anche, come dimostra la storia, imparare dagli sviluppi negativi e correggersi. In questa capacità di apprendimento risiede la più grande forza dell’Occidente. Confido nel fatto che le forze liberali si dimostreranno abbastanza forti da fermare le forze distruttive».