il Giornale, 2 agosto 2024
Breve storia del souvenir
Qualche anno fa, la polizia doganale francese sequestrò tredici tonnellate di miniature della Torre Eiffel. Tutte abusive. Provate a immaginare tredici tonnellate di piccole torri: è come dire due esemplari di elefante africano maschio (il più grande fra i mammiferi terrestri) più un rinoceronte, oppure una giraffa. E quelle erano solamente le Eiffel abusive: se si considera che anche i negozi straripano di riproduzioni del simbolo di Parigi, si capisce perché lo scrittore americano Rolf Potts abbia deciso di partire da qui per esplorare l’universo dei Souvenir (ilSaggiatore, pagg. 158, euro 16). È una traversata che comincia in Egitto nel 2200 avanti Cristo e finisce a Las Vegas, dove si svolge il Souvenir & resort Gift Show, una fiera mastodontica per un settore che, solo negli Stati Uniti, fra gadget e regali «genera profitti per 19 miliardi di dollari l’anno». Il che spiega perché vengano prodotte torri Eiffel in quantità elefantiache (per non sbagliare, chi scrive ne ha una sul frigorifero).
Secondo le cronache, il primo cliente fu il principe Harkhuf, nell’antico Egitto: fece un viaggio in Sudan e tornò con «pelli di leopardo, zanne di elefante, avorio e incenso»; però non per i vicini di casa o per le zie, bensì per il faraone. Sempre meglio tenerselo buono... All’epoca degli antichi greci e degli antichi romani, i souvenir affollavano già le bancarelle nei pressi di luoghi religiosi e monumenti, proprio come accade oggi: ad Alessandria, nel II secolo a.C., si vendevano «vasi di ceramica con incisa l’immagine di regine tolemaiche a poco prezzo»; chi andava a visitare le tombe di Achille e Patroclo a Troia trovava «miniature d’argento dei templi della zona»; ad Antiochia spopolavano le bottigliette di vetro della dea della Fortuna; ad Atene, i pittori immortalavano «i viaggiatori in posa» davanti al Partenone; a Baiae (come si chiamava Baia, sulla costa napoletana) gli antichi romani acquistavano «ampolline di vetro intarsiate con immagini di attrazioni locali come il faro, le coltivazioni di ostriche o la villa di Nerone». Del resto, come sarebbe stato possibile resistere? Un vasetto con la villa di un imperatore folle...
Da questi primissimi secoli di storia dei souvenir si può dedurre che l’attrazione umana per il kitsch sia praticamente innata; e che quindi ci si possa assolvere per tutti quegli acquisti di oggetti tanto surreali e inutili quanto irresistibili. Portachiavi che non usiamo, tazzine che poi si rompono in aereo, bicchierini da whiskey anche se siamo astemi, teiere che non portiamo in tavola nemmeno a Natale, cartoline che poi si ricoprono di polvere, magliette che non indossiamo (o magari costringiamo qualcuno a indossare), matite, boccette, saponette che accumuliamo in quantità industriale poiché ci laviamo le mani col sapone liquido, campanelle, boule de neige, magneti... Insomma: non è colpa nostra, il bisogno di comprare un ricordino è insito nella natura umana, perché dobbiamo – spiega Potts – trasformare ogni esperienza in una «storia individuale», la nostra, e non importa quanto questa narrazione che ci costruiamo nella nostra testa sia lontana dalla realtà del Paese che visitiamo. Anzi: pare che, quanto più sia lontana, tanto più i rivenditori provvedano a colmare la lacuna, offrendo ai turisti proprio quegli stereotipi fittizi che desiderano. Come dire: «l’Altro» è «altro», ma come l’ho immaginato io (insieme a qualche migliaio di occidentali in visita). In base a questa logica, Potts si è ritrovato a dare la caccia a oggetti artigianali «autentici» in un antico mercato di Calcutta ed ecco che cosa ha scoperto: «Mentre tedeschi e canadesi ammiravano tappeti dhurrie e sete del Kashmir, gli autentici abitanti di Calcutta si dirigevano verso altre zone del bazar, a contrattare l’acquisto di tappetini da doccia in gomma, pentole d’acciaio e broccati in poliestere». Del resto, voi andate al mercato sotto casa a comprare un set di piatti in ceramica dipinta a mano o due chili di arance? Per dire.
Comunque, il vero boom dei souvenir comincia nel IV secolo dopo Cristo (e non smette più), quando i pellegrini cristiani iniziano a recarsi a Gerusalemme. Tutti tornano in Europa con qualcosina, a testimoniare la rinascita spirituale, anche se non sempre perfettamente riuscita, visto che, pur di accaparrarsi una reliquia sacra, qualcuno addirittura stacca a morsi una scheggia della Vera Croce; più in generale, la tendenza a rubacchiare è così diffusa che a Gerusalemme si vendono «tavolette d’argilla, brocche e pezzi di stoffa» così che i pellegrini possano sfregarli contro le reliquie o le ossa dei santi e riportarli a casa come «amuleti sacri», senza distruggere i luoghi sacri stessi. Piacciono molto le ampolle di olio per le unzioni sacre, e poi «crocifissi, medaglioni lavorati, campane d’argento, miniature in legno di luoghi sacri o piccoli dipinti di scene bibliche». Il vero bestseller però è la «palma di Gerico», vale a dire due fronde di palma da raccogliere lungo il fiume Giordano, a una trentina di chilometri da Gerusalemme, per appuntarsele come spilla. E, siccome anche qualche millennio fa la gente era pigra, come oggi, i commercianti iniziano a raccogliere le fronde di palma per i pellegrini e gliele offrono a Gerusalemme belle e pronte. Niente di nuovo sotto il sole.
A trasformare tutte queste produzioni da artigianali a globali hanno provveduto prima la mania di collezionismo dell’epoca dei Lumi e dei Romantici, poi l’Expo parigina del 1900 e la diffusione della moda dei souvenir negli Stati Uniti. Gli americani sembrano particolarmente ben disposti verso il genere: già nell’Ottocento a Mount Vernon, in Virginia, residenza di George Washington, gli eredi idearono un «negozio di souvenir» (costruiti con il legname della proprietà) per impedire ai turisti di deturpare i reperti storici conservati. Il desiderio di accaparrarsi un ricordino patriottico era tale che ai primi del Novecento, quando la bandiera a stelle e strisce originale arrivò allo Smithsonian, era mezza sbrindellata: il venti per cento del suo tessuto era stato portato via dai visitatori della Casa Bianca nell’Ottocento.
La lettura di Souvenir è, oltre che interessante, un alleggerimento di coscienza. Comprare un magnete è nulla, rispetto a chi, all’inizio del Novecento, andava in Sudamerica a fare collezione di tsantsa, le teste umane rattrappite preparate dalla tribù amazzonica degli shuar. Ma ci si può consolare, meno cruentemente, pensando che perfino Thomas Jefferson e John Adams, prima di diventare presidenti degli Stati Uniti, andarono a visitare la casa di Shakespeare a Stratford-upon-Avon e staccarono delle schegge di legno da una vecchia sedia, come ricordo del Bardo. Di più: non tutti i souvenir vengono per nuocere. Sir Hans Sloane viaggiò ovunque e collezionò moltissimo: libri, esemplari di flora e fauna, disegni, oggetti, perfino intere collezioni altrui. E da quel tesoro è nato il British Museum. A furia di magneti...