il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2024
Carlos, il “Gattopardo” portoghese, a zonzo per giardini e locali
A Lisbona bisogna arrivarci dal mare, come ci arriva Ricardo Reis, eteronimo del poeta Fernando Pessoa, ne L’anno della morte di Ricardo Reis di José Saramago: “Qui il mare finisce e la terra comincia. Piove sulla città pallida, le acque del fiume scorrono limacciose di fango, la piena raggiunge gli argini”. Poi, guadagnata la terraferma, si dovrebbe scendere all’Hotel As Janelas Verdes, tra Santos, Lapa ed Estrela, dalle cui finestre si vede il Tago che entra nel mare: “Era come una tela raffigurante una marina, incorniciata fra mura bianche, sospesa nel cielo azzurro di fronte al terrazzo”. Lo vede così dal palazzotto del Ramalhete, con ogni probabilità l’attuale albergo Janelas Verdes, il protagonista de I Maia di José Maria Eça de Queiroz (1845-1900). Narratore, giornalista, diplomatico, è un colosso della letteratura portoghese; incarna in patria ciò che Dickens, Balzac e Tolstoj rappresentano per la letteratura dei loro rispettivi Paesi.
Pubblicato nel 1888, I Maia è un Gattopardo lusitano (senza scordare, oltre a Tomasi di Lampedusa, I viceré di Federico De Roberto) che Saramago ha definito “il più bel libro del più grande romanziere del Portogallo”. Nell’immobile Portogallo del secolo morente, tra nostalgie dell’epoca imperiale, per sempre perduta, e la decadenza del presente, si muove Carlos de Maia, ultimo dell’illustre e omonima famiglia, un uomo indeciso tra medicina, letteratura e amori impossibili (e incestuosi), che finirà per scontare tutto in un fatalismo senza speranze. “In sostanza, secondo te non vale la pena vivere”, dice Carlos all’amico Ega. E questi gli risponde: “Dipende esclusivamente dallo stomaco!”.
Al di là delle disillusioni di Carlos de Maia, ciò che conta è che la sua Lisbona non sia scomparsa, e che si ostini a essere una città letteraria. Lo dimostra intanto il Janelas Verdes e non solo questo hotel fascinoso, storico edificio settecentesco vicino al Museo di Arte Antica. Con una copia de I Maia in mano (l’ha pubblicato in Italia Edizioni Settecolori, nella traduzione di Enrico Mandillo e con introduzione di Gabriele Morelli), si può andare dunque in giro per la vecchia Capitale, sfidando il turismo distruttore, i suoi luoghi comuni e i suoi guasti.
L’autore, a ogni modo, si fa ammirare in figura bronzea al Chiado. Quando stava componendo quella saga familiare, verosimilmente Eça de Queiroz non poteva immaginare che lo scultore Texeira Lopes gli avrebbe dedicato nel 1903 una statua, fissandolo mentre sovrasta una donna nuda che rappresenta la verità, e ha il volto un po’ nascosto da un velo. Pessoa annotò nella sua piccola guida di Lisbona, risalente al 1925, che sulla fronte di bronzo di Eça de Queiroz lo scultore ha inciso la frase “Sulla violenta nudità della verità il trasparente velo dell’immaginazione”, ispirata, a quanto pare, dal titolo di un libro del romanziere.
Il monumento è in largo Barão de Quintela, al Chiado. È il quartiere borghese ottocentesco de I Maia, ma pure dei vagabondaggi e delle lunghe soste nei caffè di Pessoa. L’autore delle Poesie di Álvaro de Campos amava tra gli altri locali il famoso caffè A Brasileira, che si trova in rua Garrett, nei pressi del quale c’è una statua che immortala proprio Pessoa. Ma altri luoghi del romanzone I Maia sono grazie al cielo sopravvissuti, dandoci l’opportunità di calarci anche fisicamente, con i cinque sensi, nella letteratura. Ci informa Raoul Maria de Gomera in La Lisbona di Eça de Queiroz, che è la postfazione del volume di Settecolori, come tempo e mode abbiano risparmiato il Club Grémio Letterario (in rua Ivens), la Casa de Havaneza (largo do Chiado), “dove ancora oggi possono comprare i sigari come al tempo del romanzo”, e la Libreria Ferin (rua Nova do Almada). Salvo è pure il ristorante Tavares (rua da Misericórdia). E qui, al Tavares, dice de Gomera, “de Queiroz, attraverso i suoi personaggi, racconta se stesso: fece a lungo parte di un piccolo gruppo, non più di una dozzina di persone, intellettuali e qualche politico, che si era data come nome quello di Vencidos da Vida, i Vinti della e dalla Vita, e lì si riuniva per brindare alla propria sconfitta”. Insomma, come esiste ancora una Lisbona di Fernando Pessoa, “c’è stata e c’è ancora una Lisbona di Eça de Queiroz e I Maia ne sono ne sono da un lato il perfetto compendio e dall’altro la nostalgica rivisitazione, perché Eça passò gran parte della propria vita fuori dal Portogallo”. Per immergersi in questa città, si suggerisce di partire e ritornare al cuore del romanzo: il Ramalhete, in rua das Janelas Verdes. È una scelta controcorrente, spiega de Gomera, “rispetto a quella, più classica, della piccola brochure di Luísa Ducla Soares, Com Eça de Queiroz à roda do Chiado, e del più voluminoso Lisboa em Pessoa di João Correia Filho, che ne segue le tracce: entrambe partono dall’alto del Chiado, da Rua Alexandre Herculano e dal Giardino Botanico, per poi scendere verso il fiume”. Ha una sua logica, “perché è qui il cuore artistico-sentimentale del romanzo, ma seguirla significa sacrificarle quello che ne è un po’ il simbolo, il palazzetto in rovina che Afonso da Maia, il nonno di Carlos, acquista”, e che il nipote rimodellerà, da vinto della e dalla vita.