La Stampa, 1 agosto 2024
Intervista a Tim Robbins
«Se volete un parere su Kamala Harris, dovete rivolgere questa domanda ai detenuti e alle detenute della California». Il premio Oscar Tim Robbins, noto per le sue campagne per i diritti civili e gli endorsement politici, questa volta si sfila. «Ho compito 65 anni. Un’età in cui una volta si andava in pensione. E dovendo decidere da cosa, ho scelto di ritirarmi dalle campagne dei candidati politici. D’ora in poi solo arte». Invitato al Magna Graecia Film Festival, che lo insignisce del premio Colonna d’Oro, non presenta nuovi film ma partecipa con la sua band, The Rogues Gallery, che domani si esibirà live. Ma come omaggio il 4 agosto il festival proietta Le ali della libertà, che compie 30 anni e in un carcere è ambientato.Svincola con garbo ma in qualche modo rivela il suo pensiero: Harris è stata procuratore generale in California e si è sempre vantata delle condanne ottenute. Da storico liberal (in passato sostenne Sanders) non è certo entusiasta per i nomi in corsa per la Casa Bianca.Nessun commento neppure sull’impatto di Harris sull’elettorato femminile?«Non ho commenti. Quanto alla risposta di quegli uomini e quelle donne non penso sarà affatto un avvallo. Per lei come per nessun candidato. Perché siamo condannati. E poi accade una cosa ben bizzarra».Cosa?«Tutti si dimenticano che esiste un terzo candidato di un certo rilievo (l’indipendente Robert Kennedy Jr., ndr). Ma questo non è un endorsement. Sono in pensione dalla politica».Da Le ali della libertà è cambiato qualcosa nella situazione carceraria?«La strada della riforma del sistema carcerario è molto lunga e lenta. Con la Actors Gang siamo riusciti a ottenere un piccolo cambiamento (si riferisce al “Prison Project”, laboratori teatrali per carcerati e ex carcerati, ndr) che però ha riguardato migliaia di persone. Ma lo ha fatto un gruppo privato, una compagnia teatrale, non il Governo. Dopo anni di volontariato però sono finalmente arrivati dei finanziamenti pubblici».Molti hanno accostato l’attentato a Trump a quanto accade in un suo film del ’92, Bob Roberts. La sua risposta è stata molto dura. Cosa l’ha fatta arrabbiare?«Nel film un politico di destra simulava un attentato contro di sé per favorire la propria elezione. Quando hanno cominciato a fare questo parallelo, mi sono sentito profondamente offeso. La gente ormai è persa nell’odio (da entrambe le parti) e non ha più la capacità di ragionare né di provare compassione ed empatia. È una situazione lacerata che reputo molto pericolosa».Finirà mai questo muro contro muro?«Io spero vivamente che si possa tornare a dialogare pur con diversi punti di vista politici. In caso contrario, ci stiamo avviando verso un mondo in cui non vorrei vivere. Più invecchio e più me ne convinco: noi ci consideriamo “esperti” ma siamo “studenti”. Dobbiamo continuare a studiare per imparare, anche confrontandoci con chi non la pensa come noi. Che è proprio il contrario di quanto si vede in tv, dove sedicenti esperti esprimono opinioni che portano all’esasperazione delle posizioni».Le ali della libertà è considerato uno degli ultimi capolavori di una certa Hollywood ormai finita.«Ho cavalcato l’ultima parte di quella ondata di cui facevano parte geni come Altman, De Palma, Scorsese. Hanno reso grande Hollywood. Cosa è successo poi? Ci sono ancora molti grandi artisti, in Europa soprattutto. Ma è diventato sempre più difficile trovare finanziamenti per quel tipo di cinema, che non ha esplosioni né inseguimenti o supereroi. Io avrei tante storie da raccontare... Ma non riesco a trovare per il mio Medici un miliardario mecenate che mi finanzi».Un bilancio della sua carriera?«Per 40 anni non ho mai smesso di recitare, dirigere, produrre e penso di essere oggi all’apice della mia creatività. Per il 90% la mia carriera è composta di progetti in cui credevo fermamente. Il restante 10% mi è servito per pagare la scuola ai figli e mantenere casa».Su un palco come musicista è salito bambino, con suo padre. Poi ha scelto la recitazione per 50 anni. Cosa l’ha riportata alle origini?«Avevo 6 o 7 anni. La musica è parte integrante della mia famiglia: mia madre è musicista, e i miei fratelli hanno talento. Da adolescente mi sono messo a comporre canzoni quando ho iniziato a suonare la chitarra. Poi l’ho messa da parte. In seguito è capitato che in un momento non proprio felice ri pensassi a quelle canzoni. Per conservarne il ricordo, le ho incise: ma solo per me. Poi incontrai Hal Willner, che conoscevo già da anni, mi chiese cosa stavo facendo. Gli dissi del film mancato, ma mi interruppe: “No, intendo con la musica”. Gli ho fatto sentire quelle incisioni. “Facciamone un album”, ha detto. È cominciato tutto così. Da allora non ho più smesso. A Hal, che purtroppo è stato ucciso dal Covid, devo tutto: è stato il mio angelo». —