Corriere della Sera, 1 agosto 2024
Intervista a Pamela Villoresi
«Parafrasando quello che affermò Madame Curie, quando ritirò il suo secondo Premio Nobel, dico: chi non ha carattere, trova degli alibi per aggirare i problemi che incontra... Tutti noi, nel nostro cammino, ci troviamo di fronte a porte chiuse. Coloro che usano gli alibi, dicono: ho trovato la porta chiusa e lascio perdere. Chi ha carattere, trova il modo di aprirla, o magari ci scivola sotto come l’acqua...».
Pamela Villoresi appartiene alla prima o alla seconda categoria?
«Credo di poter affermare di avere carattere, di affrontare gli ostacoli con coraggio, nei momenti difficili penso a come risolverli, non mi concedo al dolore, all’arte del lamento. Ma le persone coraggiose non sono quelle che non hanno paura: la paura c’è, però si tenta di vincerla».
Molti la descrivono come una roccia. Le fragilità?
«Noi attori, per il nostro mestiere, dipendiamo dall’approvazione degli altri. Abbiamo l’ansia di piacere al prossimo, di sedurlo e questa è ovviamente una forma di insicurezza che nasconde la nostra fragilità. Ma io sono la tutrice di me stessa e, quando sono assalita dalle mie ansie, in certi casi da vere e proprie crisi di panico, la mia tutrice mi incita ad andare avanti. Unico problemino è che sono allergica alle ingiustizie e a volte, per non sollevare dei vespai, ho dovuto imparare a non reagire per non passare dalla parte del torto».
Per esempio?
«Le ingiustizie hanno un comune denominatore: il fatto che sono una donna e mi hanno rotto le scatole con delle molestie più o meno velate. Ovviamente, ho saputo rispondere con determinazione ma, talvolta, ho perso delle opportunità: mi sono vista passare davanti certe donne “favorite di...”, che non sempre si sono dimostrate all’altezza dei ruoli che erano stati assegnati loro. Certi registi si giustificavano dicendomi: ci devo mettere per forza quella nel ruolo, sennò il produttore non mi dà i soldi per il progetto».
Lei non ha mai ottenuto dei... favori?
«Non sono scaltra e non ho bisogno di certi favori. La mia tutrice è rigorosa: non posso somigliare a quella roba là e comunque non sono vendicativa e non faccio scorrettezze ai colleghi. Voglio morire con la mia anima viva».
Perché da ragazzina la chiamavano Paloma?
«Pamela, per i miei concittadini pratesi era inusuale, un po’... esotico: si chiamano pamele i cappelli di paglia fiorentini. E allora i miei amici si divertivano a chiamarmi Paloma, altra bellissima immagine, simbolo di pace e mi fa venire in mente Pablo Picasso».
Pamela o Paloma, la sua vocazione per il teatro nasce da piccolissima...
«Ero protagonista dei saggi dalle suore e mi preparavo recitando nella cucina di casa col mio finto microfono: il colino del tè... Mettevo a dura prova la pazienza di mia mamma. La sera mi incollavo alla tv per vedere sui canali Rai i film di Greta Garbo, e Marlène Dietrich. Poi scrivevo lettere alla Rai, per propormi: “Sono una bambina bionda col naso ritto”».
E riceveva risposte?
«Macché! Infilavo le lettere in buste, con su scritto Rai Roma e le affidavo ai miei per spedirle, ma ovviamente loro non le spedivano... E l’ho scoperto da adulta: me ne sono ritrovate tante in un cassetto».
A 15 anni parte per Roma.
«Già alla fine delle scuole medie volevo iscrivermi all’Accademia d’arte drammatica, ma ero troppo piccola e, per fortuna, a Prato c’era il Teatro Studio al Metastasio: mi ci fiondai e capii subito che da lì cominciava la mia avventura. Poi feci il mio primo libretto di lavoro e partii per Roma, con grande disperazione dei miei, che però con coraggio acconsentirono, nonostante la disapprovazione del resto della famiglia: non mi perdonavano di essere una femmina libera e intraprendente. Nella capitale la mia identità mutò. Persi la cadenza toscana e iniziai a intonare gli stornelli di Gabriella Ferri, compravo l’usato a Porta Portese, frequentavo l’avanguardia delle cantine e vivevo in una piccola comune. Finché...»
Finché arriva il primo successo con il «Marco Visconti» in tv...
«E Giorgio Strehler mi scelse per “Il campiello”: scoprii la Milano degli anni ‘70, in ebollizione: manifestazioni, cortei, mostre, concerti jazz, gli artisti che incontravo ai Navigli... Soprattutto la Milano del mio maestro, il mio padre teatrale: lui mi chiamava “figlia mia”, io lo chiamavo papà. A volte, però, mi definiva la sua figlia “degenerata”».
Perché?
«Perché volevo fare esperienze diverse, anche al di fuori di lui, impegnandomi in altri giri lavorativi e così, quando mi allontanavo dal Piccolo, accettando altre proposte, per esempio l’”Otello” con Vittorio Gassman oppure “Gente di facili costumi” con Nino Manfredi. Giorgio diceva che ero una traditrice, poi aggiungeva belle parole, augurandomi il successo e tante soddisfazioni per il mio “talento naturale”».
Un talento migrante...
«Eccome no? Il Carro di Tespi mi ha sballottato per tutta Italia, da Nord a Sud, finché i lavoratori del Teatro Biondo di Palermo mi convinsero a partecipare al bando per direttore... che vinsi nel 2019».
La prima donna a dirigere il più importante palcoscenico siciliano...
«Non solo donna, oltretutto toscana con l’aggravante di avere origini tedesche. In Sicilia avevo già lavorato tante volte e ogni volta che passavo lo Stretto, vedendo l’Etna pensavo: finalmente a casa. In questi cinque anni ho piantato radici in questa terra, anche se non è stato facile. Ho subito guerre, schermaglie, calunnie, scavalcamenti: molti si sono permessi soprusi e prepotenze che non si sarebbero mai permessi con i miei colleghi maschi. Ho spesso perso il sonno, ma non mi sono mai arresa. Palermo comunque è una città araba, è aperta, non a caso il suo nome significa “porto aperto”, quindi la bellezza del mare, l’affetto degli amici e soprattutto lo sport del canottaggio mi ha aiutato ad affrontare i problemi».
Ha pure attraversato a nuoto lo Stretto di Messina!
«Un sogno che coltivavo da tempo ed è stato un amico nuotatore a propormelo nel 2018. Ovviamente ero già molto allenata: ore di nuoto da sola, con una piccola canoa legata alla cintola del costume per essere vista dalle altre imbarcazioni. Fare la traversata non è tanto difficile: da Capo Peloro fino alla Calabria le correnti sono a favore, inoltre si è accompagnati da barche di supporto».
Attrice, direttrice di un teatro nazionale, campionessa nuotatrice e mamma di tre figli: Eva, Tommaso e l’adottiva Isabel...
«I miei tesori...».
Che dopo la prematura scomparsa di suo marito, il direttore della fotografia Cristiano Pogany, ha dovuto crescere da sola.
«Erano adolescenti e non è stata una passeggiata, perché io dovevo lavorare ma ce l’abbiamo fatta».
Come ha accettato l’omosessualità di Eva?
«La sua adolescenza è stata complicata, usciva la sera e tornava al mattino: era entrata in collisione con sé stessa ed ero preoccupata. Finalmente, mi scrisse una lettera, dove mi rivelava i suoi turbamenti e io risposi: tutto qui? Ci siamo dannate per anni e qual è il problema? Poi mi ha reso nonna di Nina. Sono una nonna arcobaleno e ne sono orgogliosa! Giochiamo insieme, con lei, che ora ha 9 anni, e con Sara che ne ha 6, figlia di Tommaso».
In che modo vive l’età che passa?
«Cammino con la faccia girata in avanti. La mia vita me la sono sempre inventata. I siciliani dicono lassa ciauro, significa “lascia profumo”. Spero di lasciarlo dietro di me.