la Repubblica, 1 agosto 2024
«In alta quota non servono quote rosa che errore quell’idea delle 8 donne sul K2». Parola di Nives Meroi
MILANO – «Il Cai non me l’ha chiesto, ma io non avrei mai partecipato alla spedizione per sole donne, organizzata per celebrare il 70esimo anniversario dalla prima salita sul K2. Mi sembra anacronistico e umiliante applicare le quote rosa in alta quota. Allo stesso modo trovo alpinisticamente superata la corsa agli Ottomila, specie se condita da retorica nazionalista, bandiere e toni eroici.
La mia idea di natura, di avventura e di esplorazione è totalmente diversa». Nives Meroi, assieme al marito Romano Benet, ha toccato la sommità di tutti i 14 Ottomila della terra. Nel 2006 è stata la prima italiana a raggiungere anche la vetta della seconda montagna più alta del pianeta. «Io sono stata fortunata – dice aRepubblica – perché ho potuto esplorare i luoghi più elevati quando l’alpinismo sugli Ottomila era ancora possibile e onesto. Oggi è diventato turismo: non capisco il senso, per organizzazioni come il Club alpino italiano e professionisti della montagna, di promuovere un business ormai estraneo a un rapporto leale tra uomo e ambiente».
Ieri è stato l’anniversario della prima assoluta sul K2, compiuta da Lino Lacedelli e Achille Compagnoni. La spedizione femminile K2-70, organizzata per ricordare il successo italiano, domenica ha dovuto rinunciare alla vetta: perché il K2 è un Ottomila così difficile?
«Anche Everest e Kanchenjunga, se saliti senza ossigeno, portatori e corde fisse, presentano difficoltà complesse. Là però i punti più impegnativi sono sotto quota Ottomila. Il K2 impone tecnica e concentrazione fino alla vetta: oltre certe quote l’energia spesa per ogni metro fa la differenza».
La rinuncia della spedizione K2-70, italo-pakistana, è stata spiegata con l’impossibilità di acclimatamento, dovuta al meteo avverso: lei come si è adattata?
«Trovo incomprensibile addossare la responsabilità agli elementi atmosferici. A certe quote il meteo è quello che è, instabile ed estremo.
Un alpinista lo sa, si prepara e agisce sfruttando le rare opportunità. Mi risulta che nei giorni scorsi altri siano arrivati in cima. Io e Romano siamo saliti dopo due notti a 6.400 metri e facendo una puntata oltre i 7 mila.
Pretendere bel tempo sul K2 è velleitario».
Ricorda la sua ascesa di diciotto anni fa?
«Con Romano lasciammo il campo base a quota 5 mila il 23 luglio.
Siamo arrivati in cima il 26 alle 13: siamo saliti in due, soli su tutto il K2, in stile alpino e senza ossigeno. Da due anni nessuno aveva messo piede sulla vetta: abbiamo trovato e aperto la nostra via in modo autonomo, fidandoci dell’istinto e aiutati solo da una corda».
Anche le quattro alpiniste italiane e le pakistane sono guide esperte, eppure sono state fermate da problemi fisici: cosa può essere successo?
«Difficile capire, a distanza e nell’immediato. La mia esperienza è che bisogna avere la pazienza e l’umiltà di ascoltare il proprio corpo e di aspettare il momento giusto. Su un Ottomila non si può salire con la spada di Damocle di un anniversario da rispettare, sospesa sulla testa. Himalaya e Karakorum presentano condizioni ambientali diverse rispetto alle Alpi.
Occorrono esperienza, consuetudine, la sensibilità diintuire cosa sta per succedere».
Ma l’idea di affidare alle donne il tentativo di ripetere la prima ascesa rigorosamente maschile, settant’anni dopo, non crede che aiuti a riflettere?
«L’alpinismo non deve lasciarsi usare dalla politica e non può rimanere ingabbiato nel vecchio nazionalismo, neppure se nascosto dietro il pretesto di sacrosanti diritti da affermare. Nel 2004, per il 50esimo anniversario, con Romano ho tentato anch’io di salire sul K2.
Nessun finto patriottismo, nessuna questione di genere: siamo saliti per il bisogno di avventura e sul versante opposto a quello classico.
Siamo stati costretti a rinunciare, nessuno ci ha lodato».
Pensa che le alpiniste di Italia e Pakistan siano state strumentalizzate da potere politico e prestigio di associazioni alpinistiche?
«La montagna è libertà, non critico nessuno. Hanno colto un’occasione d’oro di promozione personale e per fare esperienza in ambienti che conoscevano poco. È legittimo: resta il problema di prestarsi ad alimentare un’immagine falsa dell’alpinismo e della frequentazione dell’alta quota».
Cosa intende dire?
«Sugli Ottomila alpinismo e avventura non esistono più.
Chiunque, acquistando un pacchetto-vacanze può essere tirato in cima come una vacca.
Dominano folla e rifiuti. La prima ascesa sul K2 oggi si onora denunciando il suo sfruttamento, impegnandosi a contrastarlo, evitando di contribuire a un saccheggio presentato come alpinismo estremo».
Non giudica meritorio nemmeno aver posto il tema del maschilismo anche in montagna?
«Non credo che provando a portareotto donne in un colpo sul K2 si sia mosso un passo in più verso la parità di genere. Urss e Cina maoista, per fingere sensibilità al tema dell’emancipazione, inserivano sempre una donna nelle spedizioni alpinistiche di Stato. Il patriarcato non è stato scalfito: propaganda di regime e alpinismo non vanno confusi».
Cosa si sente di dire alle sue colleghe alpiniste, costrette a rinunciare alla vetta del K2?
«Non arrivare in cima non è un fallimento. Auguro loro che la rinuncia sia il punto di partenza per esplorare in modo naturale i luoghi più intatti e remoti della Terra.
Sono guide preparate: sanno che gli Ottomila impongono attenzioni supplementari, che la paura è la più preziosa compagna di viaggio».
E lei cosa fa oggi?
«Cerco libertà e felicità su montagne sconosciute, in ogni continente. Non mi riferisco alla felicità come a una conquista: parlo della sensazione di un’umana appartenenza all’intero ciclo della vita, al desiderio di uno stato di pace dentro la natura. Oggi il K2 dell’assalto commerciale non è più la mia montagna, quella che fu di Lacedelli, Compagnoni e Walter Bonatti».