Corriere della Sera, 1 agosto 2024
Pignatone si dice innocente
Palermo È arrivato in Procura a Caltanissetta accompagnato dal suo legale. Qualche convenevole con gli ex colleghi, poi la comunicazione di aver deciso di non rispondere. Almeno per ora. «Ho dichiarato la mia innocenza in ordine al reato di favoreggiamento aggravato ipotizzato. Mi riprometto di contribuire, nei limiti delle mie possibilità, allo sforzo investigativo della Procura», dirà più tardi Giuseppe Pignatone, magistrato di lungo corso ora presidente del Tribunale Vaticano, indagato a Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato, per favorire Cosa nostra, l’inchiesta, aperta a Palermo nei primi anni 90, sulle infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici. Una tesi che fa a pugni con la biografia di Pignatone e con una vita spesa contro la criminalità organizzata da procuratore aggiunto in Sicilia, e da capo della Procura in Calabria e a Roma. E che dovrà fare i conti col tempo: 32 anni trascorsi dal presunto reato che significano prescrizione di tutte le accuse.
La vicenda è delicata e ancora tutta da capire. Con Pignatone, sempre per favoreggiamento aggravato, sono finiti nel registro degli indagati l’ex pm Gioacchino Natoli, magistrato del pool antimafia di Falcone e Borsellino e pubblica accusa al processo Andreotti, e l’ufficiale della Finanza Stefano Screpanti. Sotto la regia dell’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco – nel frattempo morto —, definito dagli inquirenti «l’istigatore», i tre avrebbero «annacquato» l’inchiesta mafia-appalti, poi parzialmente archiviata, per aiutare gli imprenditori palermitani in odore di mafia Antonino Buscemi e Francesco Bonura e i vertici del gruppo Ferruzzi a eludere le indagini. Natoli, che risponde anche di calunnia, sentito le scorse settimane, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Qualcosa ha invece detto ai magistrati il terzo indagato, ora generale e all’epoca dei fatti giovane capitano del Gico (il gruppo d’investigazione della Finanza sulla criminalità organizzata), che ha respinto le accuse.
Ma perché una inchiesta vecchia di 30 anni è tornata a interessare gli inquirenti? In realtà l’oggetto dell’attività investigativa è più ampia e riguarda l’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino, attentato che, a dire dei familiari del magistrato, sarebbe strettamente legato proprio al dossier mafia-appalti. Una tesi che vede nel timore che Borsellino andasse a fondo sugli interessi miliardari di Cosa nostra nei lavori pubblici il vero motivo dell’accelerazione impressa alla sua eliminazione.
A Natoli i colleghi nisseni contestano di aver svolto una indagine farsa sul filone dell’inchiesta che riguardava presunte infiltrazioni mafiose nelle cave toscane, una sorta di «indagine apparente» fatta di intercettazioni lampo, limitate solo ad alcune utenze. L’ex pm, poi, non avrebbe trascritto conversazioni particolarmente rilevanti e «per occultare ogni traccia dell’esito delle intercettazioni telefoniche», avrebbe ordinato la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci. Del procedimento sulle cave toscane si sarebbe occupato, proprio su input di Borsellino, che gli avrebbe trasmesso un documento ad aprile del 1992, anche Pignatone. Sulla vicenda Natoli si è difeso davanti all’Antimafia nei mesi scorsi. Nell’audizione fiume davanti ai commissari ha detto diverse cose rilevanti per ricostruire i fatti. Due tra tutte: le famose intercettazioni fatte dopo l’arrivo del fascicolo toscano erano, anche a parere della Finanza, assolutamente irrilevanti, e comunque le bobine, recentemente ritrovate negli archivi della Procura di Palermo, non sono mai state smagnetizzate. Tanto che sono agli atti dei pm nisseni.