La Stampa, 1 agosto 2024
L’ayatollah umiliato giura vendetta ma non vuole una guerra aperta
Ismail Haniyeh vale meno di Qassam Suleimani, di certo nei cuori degli iraniani. Gli iraniani che stanno con il regime degli ayatollah, s’intende. Meno perché il generale dei Pasdaran era l’uomo delle vittorie, su tutte quella contro l’Isis in Iraq e Siria, il vendicatore degli sciiti, il creatore dell’asse della resistenza che adesso include a pieno titolo proprio Hamas. Haniyeh, arabo, sunnita, non diventerà, per quanto «martire», una sorta di nuovo imam da venerare nel suo mausoleo. Ma forse vale di più di Sayyed Razi Mousavi, un altro generale dei Pasdaran, responsabile delle operazioni in Siria, ucciso a Damasco lo scorso primo aprile. La guida suprema della Repubblica islamica, Ali Khamenei, snocciola il rosario e conta i giorni che mancano alla rappresaglia. «Ci vendicheremo», ha promesso. Secondo il New York Times l’ordine di attacco diretto contro Israele sarebbe stato impartito ieri mattina durante un consiglio supremo di sicurezza. In che modo, quanto, dipende dal valore del «martire», e soprattutto dalle circostanze. Era il 3 gennaio 2020 quando Suleimani venne ucciso da un drone americano a Baghdad. Il 9 gennaio decine di missili balistici volavano attraverso il deserto dell’Anbar per colpire Ayn al-Asad, la più grande base americana in Mesopotamia. Risultato: zero morti, e un centinaio di soldati con sintomi da concussione per le potenti esplosioni. Erano stati avvertiti al momento del lancio, e si sono rifugiati negli hangar blindati. Qualcosa di simile è accaduto il 12 aprile, dopo l’eliminazione di Mousavi. Il primo e più grande raid diretto dall’Iran a Israele, centinaia di droni e missili balistici, poi tutti intercettati dallo scudo israeliano e degli alleati.
Un attacco meno «telefonato» ma comunque concepito in modo da dimostrare che l’Iran, se vuole, può colpire in tutta la regione. Senza però innescare una guerra aperta. Khamenei ha una finestra di tempo limitata. Una, due settimane, per non perdere la faccia. Ha subito un’umiliazione folgorante. Sull’intensità della risposta pesa il valore, il ruolo di Haniyeh. E anche lo schiaffo di aver assistito alla sua uccisione nel cuore del potere della Repubblica islamica. Nella Teheran blindata che assiste alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian, che doveva accogliere, oltre ai capi di Stato e di governo amici, tutti i rappresentanti dell’Asse della resistenza, palestinesi, libanesi, siriani, yemeniti. Che frustata, che sale sulle ferite aperte dagli «omicidi mirati» che Israele continua a portare a compimento in tutte la capitali alleate degli ayatollah. L’umiliazione pesa. Ma incidono molto di più le valutazioni politiche. Se per il “quasi imam” Suleimani non si è rischiato un conflitto devastante, perché farlo adesso.
Il colpo è stato accusato a Teheran, ma il «martire» è palestinese. Gli alleati dovranno farsi carico di una parte della rappresaglia, se non tutta, ed Hezbollah deve vendicare, in parallelo, il suo comandante Fouad Shukr.
Che micidiale doppio colpo ha messo a segno nel giro di dodici ore Benjamin Netanyahu. La baldanza iraniana seguita al 7 ottobre è lontana. Israele ha dimostrato di essere ancora il padrone dei cieli della regione. Tutto va rimasticato. La rabbia va placata. Analisti dell’Asse della resistenza sono al lavoro per l’elaborazione del lutto. Con tesi che sanno di complottismo, come spesso avviene. Alla fine, Haniyeh, sì, era lì a omaggiare la Repubblica islamica, ma era anche un rappresentante del “partito turco” all’interno di Hamas. Quello che nel 2012 aveva sfidato Bashar al-Assad in Siria e si era schierato con gli oltranzisti sunniti. Rimane al vertice Khaled Meshaal, già predecessore e ora successore designato di Haniyeh. Anche lui ha flirtato a lungo con il jihadismo sunnita ai tempi della tremenda guerra settaria che ha devastato la Mesopotamia, e lo Yemen, tra il 2012 e il 2019. È considerato però più vicino a Teheran che a Istanbul, più consapevole che le roboanti minacce del presidente turco Recep Tayyip Erdogan non andranno da nessuna parte, non porteranno alcuno aiuto concreto nella battaglia contro Israele. Solo l’Iran conta.
Nel soppesare l’intensità dei raid di risposta Khamenei guarda anche agli equilibri dentro i palestinesi. La trattativa per scambiare ostaggi con prigionieri non è ancora sepolta. Con Meshaal alla guida politica si pensa a come salvare il capo militare, Mohammed Deif, ancora vivo, anche se con tre, forse quattro arti in meno. L’accoppiata Meshaal-Deif potrebbe trasformare in maniera definitiva il movimento palestinese in una copia, per quanto sunnita, dell’Hezbollah libanese. Un braccio politico e armato di Teheran sulle sponde del Mediterraneo. In ogni crisi, c’è un’opportunità. Nelle trattative per lo scambio il nome più importante è quello di Maruan Barghouti, leader effettivo di Fatah e “presidente in carcere” dell’Autorità palestinese. Un laico, vero, ma riconosciuto da tutti. Con la sua liberazione l’accordo per fare entrare Hamas nel governo palestinese sarebbe cosa fatta.
Il quarantennale investimento nel Levante arabo da parte dell’ultima incarnazione dell’Impero persiano, la Repubblica islamica, è al dunque. Khomeini aveva studiato a fondo il suo obiettivo. Conosceva la distinzione tra “arabi di città” e mondo beduino elaborata da Ibn Khaldoun, il grande filosofo, storico, geografo del XIV secolo, un Leon Battista Alberti, ma più sottile. Una distinzione poi ripresa da Lawrence d’Arabia e suggerita a Winston Churchill al momento della spartizione dell’Impero ottomano nel 1921. Khomeini e il suo successore Khamenei hanno coltivato gli arabi di città levantini. I “beduini” del Golfo stanno più o meno con l’Occidente. La risposta al doppio schiaffo a Beirut e Teheran dovrà tener conto dell’investimento. Senza che la voglia di lavare nel sangue la “grande umiliazione” faccia saltare tutto. —