Corriere della Sera, 1 agosto 2024
Il successore Meshal, il feroce Sinwar. Chi resta a guidare le milizie jihadiste
La caccia ai leader di Hamas non si è mai fermata. A Gaza e all’estero dove vivono le figure della diaspora, uccisi da una tattica che riporta agli anni 70 e oltre, quando Israele rispose all’attentato alle Olimpiadi di Monaco con l’eliminazione di molti dirigenti palestinesi. Alcuni erano terroristi legati all’eccidio, altri furono inseriti nella lista approvata dalla premier Golda Meir perché era l’occasione per togliere di mezzo figure della resistenza.
La guerra segreta è continuata e si è allargata coinvolgendo l’Iran, l’Hezbollah, le milizie sciite, chiunque abbia aderito al fronte avversario. L’amico del mio nemico è mio nemico. Omicidi mirati avvenuti prima (da decenni) e dopo l’assalto palestinese del 7 ottobre, con un aggiornamento dell’elenco dei target. Il governo Netanyahu ha chiarito che avrebbe colpito ovunque, secondo le possibilità e il momento. Così ha chiuso il conto con Saleh el Arouri a Beirut e ora con Ismail Haniyeh a Teheran, due personaggi della gerarchia in esilio, che si muovevano per il loro ruolo allo scoperto tra vertici e conferenze. Questo li ha resi «rintracciabili».
Tel Aviv si è preoccupata solo di non violare il santuario del Qatar, la monarchia del Golfo che accoglie alcuni capi ma è parte del negoziato. In giro, sempre all’estero, ne restano molti: Khaled Meshal (indicato come successore possibile di Haniyeh), Moussa Abu Marzouk, Bassem Naim, Osama Hamdan, un paio di «contabili», il capo della Jihad Ziyad al Nakhalah. Muovono tra Turchia, Libano, Iraq, Iran e forse Siria, ma non di rado si ipotizza che stiano cercando nuove «sedi» dalle quali continuare a manovrare. Attenti però a sopravvivere. Sotto questo aspetto l’attacco avvenuto a Teheran ha rappresentato uno shock, sia per il regime che per gli ospiti. Se non ci proteggono i pasdaran in Iran, chi lo può fare altrove?
Il secondo teatro ha riguardato la Striscia. Israele ha fatto di tutto per ridimensionare le fazioni. Da un calcolo empirico, tratto dagli annunci dell’Idf, sono oltre 200 gli ufficiali eliminati. Tra loro comandanti di settore e battaglioni (Ayman Nofal, Rafa Salama, Ahmed Ghandour) esperti di droni e deltaplani (Morad Abu Morad), addetti alla sicurezza, responsabili di unità scelte, qualche politico, non pochi familiari di esponenti di spicco, compresi una sorella, tre figli e alcuni nipoti di Haniyeh.
Incerta la sorte del «fantasma», Mohammed Deif, la guida delle Brigate Ezzedine al Qassam. Il 13 luglio gli israeliani hanno sferrato un raid contro una villetta nella zona di Mawasi e, secondo alcune indiscrezioni, potrebbe aver perso la vita o sarebbe rimasto ferito. Deceduto, invece, Marwan Issa, il numero due dell’apparato militare. L’intelligence è arrivata al presunto «covo» dopo aver ricevuto una segnalazione che parlava della possibile presenza di Deif, riemerso dopo aver trascorso un periodo in uno dei tunnel nel settore sud. Ma, vista la sua storia, fatta di appuntamenti con la morte mancati di poco e di agguati falliti, è opportuno non arrivare a conclusioni.
Non si hanno notizie precise del leader supremo Yahya Sinwar. Persistono le voci sulla sua presenza in un bunker nella regione sud mentre, qualche mese fa, era stata ipotizzata una fuga in Egitto o persino in Libano. Per Hamas, invece, è saldo al comando, solo un paio di persone avrebbero un contatto diretto. È introvabile il fratello Mohammed, ritenuto uno dei perni di un movimento tenace che continua a combattere in condizioni di grande difficoltà. Per questo i commentatori, senza togliere valore alle mosse dell’intelligence, ripetono che l’annientamento dei capi da solo non basta a cambiare le cose.