la Repubblica, 1 agosto 2024
Biografia di Ismail Haniyeh
«E se anche Israele mi elimina? O elimina tutta Hamas? Che cambia?», diceva dopo il 7 Ottobre. «Resterà la volontà di Dio. E resteranno altri 7 milioni di palestinesi». Ismail Haniyeh era così. O se non altro, così appariva: uno tra tanti. Ad aprile aveva colpito tutti per un video in cui veniva informato della morte di tre dei suoi figli, uccisi a Gaza: con uno sguardo imperturbabile. Era stato accusato di indifferenza. Di insensibilità alla vita. Ma non dagli arabi. Perché era il suo modo di dire: siamo tutti uguali. Dichiarò solo: «Tutti i morti di Gaza sono miei figli».
La sua caratteristica era non avere caratteristiche. E quindi, essere lo specchio di tutti.
Figlio di un pescatore, era nato nel 1963 nel campo profughi dial-Shati, a Gaza, in cui i suoi erano finiti dopo il 1948. Si era avvicinato all’attivismo negli anni dell’università, e della Prima Intifada. Si divideva tra il calcio e la politica e probabilmente, non essendo un combattente, non sarebbe mai diventato uno di primo piano se nel 1992, reo di avere occupato la facoltà, non fosse stato arrestato da Israele, e deportato oltre confine a Marj al-Zahour, in Libano, con altri 414 militanti. Israele era certo così di sbarazzarsi di questo nuovo movimento chiamato Hamas. La formazione invece trasformò Marj al-Zahour in una specie di ritiro e tornò molto più unita e organizzata. E soprattutto, molto più vicina a Hezbollah.
Rientrato a Gaza, Ismail Haniyeh preferì le retrovie. Perché era un po’ l’intellettuale di Hamas. Professore di Letteratura Araba, era il più fidato consigliere di Ahmed Yassin. Il suo fondatore. E probabilmente sarebbe rimasto un passo indietro se durante la Seconda Intifada, i suoi leader non fossero stati assassinati tutti. Uno a uno. Alle elezioni del 2006, fu scelto come capolista da Hamas, e poi come primo ministro, proprio per questo: perché era uno molto di testa, sempre misurato. Uno adatto a rassicurare la comunità internazionale.
Era quello di Hamas che non sembrava di Hamas. Ma finì per non rassicurare neppure gli altri palestinesi. Era già scampato a un attentato: ma di Fatah. Era il 2006. E fu l’inizio di una faida ancora in corso.
Non era uno dominante. La sua specialità era fare sintesi. Fare equilibrio. Era un mediano: in campo e non solo. Per Hamas, di cui era alla guida dal 2017, era un capo che non era un capo. Erano gli anni più difficili, gli anni della Primavera Araba e poi della Siria, dell’Iraq, dell’Isis: della guerra tra sunniti e sciiti. Emendando il proprio statuto, Hamas accettò i confini del 1967, e implicitamente, l’esistenza di Israele, e si allineò alla Turchia. Avviando una trattativa con Netanyahu. Ma Ismail Haniyeh era anche uno estremamente pragmatico. E nel 2020 lasciò tutti di stucco, arrivando a Teheran per i funerali di Qassem Soleimani. Gli Accordi di Abramo erano ormai pronti, Israele aveva optato per un’altra strada: e Hamas optò per l’Iran.
L’unico che avrebbe finanziato una nuova Intifada. E il 7 Ottobre.
Ismail Haniyeh era falco e colomba insieme. In base al momento. Come tutti, non si illudeva. «So che avrò vita breve», diceva. Poi diceva: «Breve come la vittoria di Israele».