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 2024  luglio 31 Mercoledì calendario

La “verità” di Sophia Loren è in grado di svelare il dolore


Le parole scritte sono da sempre il mio destino. Ho conosciuto più libri che esseri umani. Eppure tento un azzardo. L’incontro che mi ha cambiato la vita? Tralascio gli innumerevoli scrittori compulsati fino allo sfinimento. Scelgo un’attrice. Mai incontrata dal vivo ma i cui film hanno scandito tutta la mia vita sin dall’infanzia. Sophia Loren – 90 anni il prossimo 20 settembre – mi ha mostrato la lezione più importante: il talento non si misura sulle prodezze tecniche ma sulla capacità di assumere su di sé il dolore del mondo. Nessuna come lei ha rappresentato quella generazione di popolane del Novecento, semplici dimesse povere, sempre ai margini della Storia e capaci a dispetto delle sventure di non perdere mai la dignità. Eco del suo stesso apprendistato nella Pozzuoli degli anni 40 e 50. Ha sperimentato il dolore e non lo ha dimenticato. Penso per esempio alla scena finale di I girasoli di De Sica. La trama è presto detta: Giovanna parte per la Russia alla ricerca del marito Antonio disperso durante la ritirata del 1943. Riesce a rintracciarlo ma lui si è risposato. Disperata e decisa a dimenticarlo sceglie di rifarsi una famiglia. Quando Antonio, pentito, torna a sua volta in Italia per proporle di scappare insieme, Giovanna rifiuta per il bene dei suoi figli e decidono di separarsi per sempre. La scena finale vede la donna in stazione salutare Antonio a bordo di un treno che lentamente si allontana. Giovanna-Loren si scioglie in un pianto disperato e insieme pieno di pudore. Ecco, quello sguardo ferito non può essere addomesticato, nessuna messinscena può portartelo in dote. Devi averlo dentro da qualche parte. È banalmente una questione di autenticità. Vale lo stesso per me quando “recito”, ovverosia quando batto sui tasti del pc. È anche grazie alla Loren se ho compreso a fondo il celebre consiglio di Hemingway: “Tutto quello che devi fare è scrivere una frase vera. Scrivi la frase più vera che conosci”. Le sue interpretazioni più celebri trascendono il grande schermo e si collocano non già nel mio immaginario ma nei ricordi e nelle esperienze della mia esistenza concreta. Le donne che ha portato sullo schermo – dalla Cesira di La Ciociara alla Antonietta di Una giornata particolare – fanno parte di me al pari di mia madre, delle mie nonne, delle mie zie. Come è riuscita in questo miracolo? Proprio perché davanti alla macchina da presa lei non è mai personaggio ma persona. Per paradosso Sophia Loren – intesa come donna nata a Roma e attrice vincitrice di due premi Oscar – è tanto da me più idolatrata quanto più si smaterializza nei suoi ruoli.
Se penso a un mito imperituro come Marilyn Monroe non posso fare a meno, ogni volta che mi imbatto in una delle sue pellicole, di “vedere” solo e soltanto Marylin e non il ruolo prescritto dal copione. Sophia, ultima diva di una stagione d’oro irripetibile, travalica pure il divismo. Esiste un prodigio più grande dentro questa eterna macchina dei sogni che resta il cinema? Temo di no. Ecco allora che Sophia Loren è per me l’unica fede possibile. Fatico a credere in Dio ma in Sophia credo con la stressa intensità di un monaco cistercense. Perché, per dirla con Giuseppe Marotta, questa “pazza, scentrata e asimmetrica bellezza” mi ha tanto folgorato? C’entra la mia parabola di bambino e adolescente solitario, barricato nella mia stanzetta. Un vuoto colmato da Melina, mia madre. L’ho amata fino all’ultimo dei suoi giorni, vinta da un tumore nel 2020 all’età di 62 anni. Sophia Loren, incarnazione per eccellenza della figura materna, non poteva dunque che conquistarmi. In Tuamore, memoir che ho consacrato a Melina, racconto di quando una ventina d’anni fa inviai una lettera all’attrice, chissà se mai pervenuta, nella quale le scrivevo: “Lei riassume tutte le mamme del mondo, quando vedo i suoi film mi sento un bambino affamato d’amore”. Nel cuore e nella mente avevo e ho davanti a me Cesira di La Ciociara, stuprata insieme alla figlia Rosetta durante la Seconda guerra mondiale dai soldati marocchini dell’esercito francese; Adelina, la contrabbandiera di sigarette di Ieri, oggi, domani che sforna un figlio dopo l’altro per evitare la galera; Filumena di Matrimonio all’italiana che sfugge a un destino di prostituzione allevando in segreto tre figli all’ombra del danaroso amante Dummì; Giovanna di I girasoli che per fedeltà alla sua nuova famiglia rinuncia al vecchio amore Antonio; Antonietta di Una giornata particolare, madre di sei figli durante il ventennio fascista che resta vittima di una passione impossibile per il vicino di casa omosessuale; Aurora di Qualcosa di biondo, tassinara che lotta per fare operare il figlio non vedente; Lucia di Mamma Lucia, immigrata italiana in America che cresce da vedova i cinque figli; Titine di Soleil, donna ebrea rifugiata ad Algeri e madre di cinque figli; Madame Rosa di La vita davanti a sé, anziana ebrea sopravvissuta che ospita figli di giovani prostitute e che si prende cura al pari di una madre di un ragazzino di strada senegalese. Tutte donne tenaci e coraggiose per le quali la maternità è una sorte cercata, desiderata, accolta. Per loro la famiglia è uno spazio di libertà. Esattamente come per la mia Melina. Per questo spesso mi è capitato di sovrapporre mia madre e Sophia Loren, sognando che l’attrice potesse presto o tardi darle il suo volto e la sua voce sul grande schermo. Ora che Melina non c’è più, mi piace rintracciarla in un tic, in una smorfia, in una battuta delle tante mamme-Sophia