il Giornale, 31 luglio 2024
Così Stevenson scavò nell’animo dell’uomo. E trovò Mr. Hyde
Quando Dostoevskij morì, nel febbraio del 1881, Robert Louis Stevenson festeggiava i primi nove mesi di matrimonio con Fanny, più vecchia di lui di undici anni. Ritornato in Europa dopo lungo peregrinare per gli Usa, si apprestava a pubblicare uno dei suoi capolavori, la raccolta di racconti New Arabian Nights; di lì a poco avrebbe licenziato L’isola del tesoro. Erano nati entrambi in novembre; nel ritratto di John Singer Sargent, Stevenson, altissimo, allampanato, si muove inquieto in una stanza dalle pareti rosse: pare un Raskol’nikov. D’altronde, in una lettera all’amico John Addington Symonds studioso di Dante, Michelangelo e Cellini, era il 1886, Stevenson scrisse, pressappoco, che Delitto e castigo, «è il più bel libro che abbia letto negli ultimi dieci anni»; Dostoevskij preferiva Dickens. La lettera è interessante, se non altro perché proprio quell’anno Stevenson aveva pubblicato Strano caso del Dr Jekyll e di Mr Hyde (ora riproposto da Luni a cura di Francesco Baucia e Federico Bellini, pagg. 112, euro 13,). La storia, nota a tutti, pone un tema potente: cosa accade quando nel cuore di un uomo rispettabile, ben inserito nella cricca sociale del proprio tempo, si scatena il mostro, un insopprimibile istinto omicida? È possibile che un uomo «ben proporzionato, dai tratti morbidi» e dallo sguardo «colmo di carisma e cortesia» nasconda in sé il demoniaco Hyde, la cui conformazione fisica traduce «qualcosa di spiacevole, di addirittura ripugnante»?
Rileggendo Strange Case of, mi è venuta, piuttosto, un’altra domanda. Come avrebbe trattato Dostoevskij una simile idea narrativa? In Dostoevskij, il romanziere che con più acume di tutti, con cerbero istinto speleologico, ha investigato il male, i malvagi Ivan Karamazov, Nikolaj Stavrogin, per dire sono esatti, risoluti, perversi per ipocrisia, semmai, ma totalmente demoniaci. Non sono scissi come il pio dottor Jekyll. Possono essere sadici, gretti, meschini, ridicoli nella loro rettitudine da ratti nel frequentare le becere catacombe del desiderio, ma non sono scissi. Tutti gli antieroi di Dostoevskij sono, comunque, in modo inopportuno e insopportabile, in quanto creature di Dio, degni di redenzione. Al contrario, Hyde, il mostro, deve morire. Eppure che magnetico paradosso Hyde è il puro istinto alla vita, «il suo amore per la vita è strepitoso», scrive Jekyll nell’ipnotico «resoconto integrale» che chiude il libro.
Nelle mani di Dostoevskij più prossimo a Nietzsche che a Freud il caso del Dr Jekyll e di Mr Hyde sarebbe esploso in un romanzo di un migliaio di pagine, fitto di digressioni, di frasi rotte e di paragrafi scombinati. Dostoevskij non ha interesse verso i personaggi; vuole arpionare gli uomini. Stevenson, invece, ama l’egregia forma letteraria: intorno a un tema ineffabile vuole costruire un racconto conchiuso, perfetto. In effetti, ci è riuscito. La scissione di Jekyll in Hyde è il pretesto per un marchingegno narrativo feroce, a ghigliottina. Così, prima della rivelazione finale scritta da Jekyll assistiamo al dialogo tra l’avvocato Gabriel John Utterson il vero protagonista del racconto e Richard Enfield, redatto secondo i criteri del pettegolezzo tra gentiluomini; segue il racconto dell’omicidio, la sequela da romanzo giallo, l’intrigo della confessione. La vicenda è scandagliata da diversi punti di vista, avvolta da bozzoli di reticenze, con scrittura impeccabile. A Stevenson non interessa la salvezza delle anime, ma il bene della letteratura. Ci ha svelato che «l’uomo non è mai veramente uno, ma due»; sappiamo, da tempo, che l’uomo è nessuno e centomila, che nasconde in sé legioni di altri.
Coltivando il gioco delle somiglianze: la «bambina di circa otto o dieci anni» che incrocia Hyde e viene da costui calpestata («e passò oltre lasciandola per terra che gridava»), è analoga a quell’altra bambina, «sugli otto anni, con un fazzolettino rosso in testa» che «l’uomo ridicolo» di Dostoevskij incontra per caso, di notte, in una «via ormai deserta» e che abbandona al pianto, scacciandola malamente da sé. Se la bambina, in Stevenson, è la mera prova del carattere spietato di Hyde, in Dostoevskij è il principio di una lenta redenzione.
Detto questo, c’è un altro aspetto. Chiamiamolo: modesto elogio di Mr Hyde. Stevenson sembra dirci che è inutile umiliare la componente Hyde dalla nostra vita. La vita, a volte, è disobbedienza al quieto vivere, è infrangere le norme; a volte è sbandare, imbestiarsi, darsi agli istinti. I lacci sociali, le catene della vita sicura non fanno che alimentare il mostro che ci sgorga da dentro: lo rendono adulto, lo crescono scaltro. «Legare la mia sorte a Jekyll significava rinunciare a tutti quei segreti appetiti cui un tempo indulgevo in segreto, ma che avevo ultimamente cominciato a viziare»: è vero! La vita, anzitutto, è fame, vizio anche chi cerca Dio attrezza alla posta e alla caccia, al sangue finanche alla morte.
Nella lettera in cui celebra Dostoevskij, Stevenson scrive una frase rivelatrice: «Gli uomini non vogliono, né credo accetterebbero, la felicità; quel che li fa vivere è rivalità, sforzo, successo, cose che ora desideriamo eliminare». È un concetto, in un contesto ben più tragico, ripetuto quasi con le stesse parole da George Orwell. Il 21 marzo del 1940, sul New English Weekly, ragionando intorno al Mein Kampf e allo spiazzante successo ottenuto da Hitler nel suo paese, Orwell scrive che «gli esseri umani non desiderano solo la comodità, la sicurezza, la riduzione dell’orario di lavoro, l’igiene, il controllo delle nascite o, in generale, il buonsenso: vogliono anche, almeno di tanto in tanto, la lotta e l’abnegazione, per non parlare dei tamburi, delle bandiere e delle parate patriottiche». Insomma: abbiamo un Hyde nel petto; la vita brutale, feroce batte in noi; rabbonirla con i confetti, bonificarla con il welfare non serve a nulla. Benché recitiamo ogni tanto la parte di Jekyll, per evitare che il prossimo ci rompa le balle, siamo degli irriducibili Hyde.
Per questo, il micidiale Mr Hyde ha preso a infestare la letteratura inglese: lo rivediamo nel Kurtz di Conrad un uomo che ha scelto di spezzare il tabù che separa desiderio e atto e nell’Alex DeLarge forgiato da Anthony Burgess. Stevenson voleva soltanto scrivere un racconto perfetto: ci ha fatto il ritratto. Eppure, nelle fotografie non è raro vederlo ridere; amava guardare le stelle e, a dispetto di quanto ha scritto, sapeva di essere felice: «felice ho vissuto, felicemente muoio», così recita il suo epitaffio.