La Stampa, 31 luglio 2024
Non è tempo per timidi
La timidezza occupa un punto strano, complesso, nello spazio delle qualità. Non è transitiva rispetto al rovesciamento: i suoi contrari sono “coraggioso”, “sicuro di sé”; ma i contrari di “coraggioso” e “sicuro di sé” sono “insicuro” e “vigliacco”. Questi sono termini polarizzati, codificati come positivi o negativi. La timidezza è positiva o negativa? Nessuna delle due, entrambe. È una debolezza che diventa risorsa segreta, è un dono ambiguo.
Un dono ambiguo è anche la scrittura – intesa sia come la capacità di dare permanenza alla parola, che come arte di raccontare storie. La parola scritta suscita diffidenza. Nella sua definizione più generale possibile, il romanzo mira a mostrare una verità attraverso una serie di menzogne, la storia vera di persone che non esistono. E proprio in questo senso, l’arte della narrazione partecipa della stessa ambiguità della timidezza.
Prendere la parola e inventare una vicenda e dei personaggi, simulando i loro pensieri e sentimenti, decidendo le loro sorti, ha qualcosa di tracotante. La creazione è un atto divino: una cosa che richiede coraggio e sicurezza di sé, il contrario della timidezza. Eppure, per certi versi, narrare è anche il contrario del contrario della timidezza: scrivere romanzi vuol dire mettersi in secondo piano, quasi annullarsi. Prestare la propria voce a qualcun altro, nascondersi nei suoi panni. Di tutte le persone che parlano, il romanziere è il più timido, perché la sua arte gli permette di non parlare mai di sé.
Questa ambiguità è stata rivendicata in modo esplicito da Ursula LeGuin, nella sua Teoria letteraria del sacchetto della spesa. LeGuin riconduce questi due aspetti del narrare alla forma di vita dei primi umani, cacciatori e raccoglitrici. I primi racconti che abbiamo ci vengono da quelle epoche: sono le pitture rupestri della caccia ai bisonti, scrive LeGuin: «il racconto dell’ascesa dell’uomo come eroe». Sono storie epiche, celebrative. Chi le racconta non è affatto timido: sfoggia coraggio e sicurezza. Dice «io» perché parla di sé.
Ma, osserva LeGuin, la paleoantropologia mostra, dalle ossa di quei nostri antenati, che la loro dieta si componeva di pochissimi bisonti. Mangiavano perlopiù bacche, radici, semi. E mentre gli uomini, gli eroi delle pitture rupestri, correvano appresso ai bisonti, le donne e i bambini – che nelle pitture non figurano – arrostivano quelle radici e sgusciavano quei semi, di cui nove giorni su dieci si sarebbero nutriti gli eroi tornati a mani vuote dall’ennesima battuta di caccia. E come ingannavano il tempo, quelle donne, quei bambini? Raccontavano storie anche loro, raccolti intorno al fuoco o all’ombra di un albero. Quelle storie non ci sono arrivate, ma possiamo essere sicuri che fossero molto diverse da quelle dell’ascesa dell’uomo come eroe. Se le prime sono le storie del coraggio, queste sono le storie della timidezza. Chi le racconta non si mette in mostra. Dice «io» perché parla di un «noi».
Questa timidezza non è il contrario del coraggio; anzi, spesso ne racchiude una forma più vera. È la timidezza di Bartleby lo scrivano, che in quel suo modo schivo e dimesso oppone alla società intera un rifiuto irresistibile – un rifiuto che gli eroi, dall’alto del loro piedistallo, non hanno la forza di fare. Ed è questa timidezza, mi pare, la forza principale della narratrice di Un dettaglio minore di Adania Shibli. La prima parte del romanzo racconta di un’atroce violenza commessa dalle forze israeliane poco dopo la Nakba, nel 1949, ai danni di una donna beduina. La narratrice prende la parola solo nella seconda parte – ci mette un po’, perché è timida. È una ricercatrice palestinese che mezzo secolo dopo si ossessiona per ricostruire in ogni dettaglio quella vicenda remota, “minore” nel grande disegno della storia ma enorme per lo scandalo morale che rappresenta. Da timida, ci dice poco di sé: la storia che vuole raccontare è la storia di qualcun altro. Il suo bisogno di conoscerla si scontra con un’altra timidezza, quella delle popolazioni oppresse, che alla timidezza sono costrette. La narratrice deve subire controlli di ogni tipo, chiedere permessi, dare spiegazioni a chiunque; passati i checkpoint si muove furtiva, timorosa di essere fuori luogo, costantemente allarmata. Questi, visti da fuori, sono i comportamenti dei timidi; ma è evidente che nel profondo significano il contrario, sono atti di coraggio. La storia che vuole ricostruire la narratrice e la storia che narra Shibli sono, nella storia con la maiuscola, un dettaglio minore. Non parlano di eroi. Le sue vittime non sono milioni, ma due, due donne. Una di loro dice «io», ma il suo io è l’io coraggioso dei timidi, e significa «tutti noi».
La lezione di Shibli – ma anche la parola “lezione” sembra sbagliata, è una parola da cacciatori di bisonti – mi sembra preziosissima specialmente oggi. Non sembra una buona epoca per la timidezza. Da più di un decennio le tecnologie digitali ci incoraggiano al suo contrario – il racconto smodato di sé, una superficialità sfacciata e narcisista che non ha nulla di coraggioso. E chi la timidezza la conserva e la nutre – chi nasconde la propria voce in quella altrui, chi dice io per dire noi – sempre più spesso si trova schiacciato, anche nella sicurezza privilegiata di un Paese come l’Italia. Ci sono scrittori, oggi, che vengono attaccati per vie legali dai detentori del potere per le loro opinioni. Altri che per aver parlato contro il governo rischiano di perdere il posto di insegnante. Altri le cui parole vengono silenziate, cancellate dal palinsesto da chi non le vuole sentire. Siamo liberi, certo, ma lo siamo sempre di meno. Sembrerebbe un momento sbagliato per essere timidi – sembrerebbe necessaria la sicurezza di sé di chi dipinge se stesso mentre caccia il bisonte, di chi declama dal piedistallo; ma nella resistenza pacata e civile, sommessa, di queste scrittrici e questi scrittori, c’è invece una qualità più forte e profonda, il coraggio dei timidi. Anche loro dicono io per dire noi: e in quel noi ci siamo tutti. —