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 2024  luglio 31 Mercoledì calendario

Mino Reitano raccontato dalla figlia Giuseppina

Era commozione vera quella che si percepiva nel pomeriggio del 29 gennaio 2009 nella Chiesa di Sant’Eusebio di Agrate negli occhi di Adriano Celentano e Claudia Mori, di Roby Facchinetti, Gianni Morandi, Mike Bongiorno, Memo Remigi, Nicola Di Bari, Shel Shapiro, Mario Lavezzi, Valerio Merola, e tanti altri fra i quali il ministro Tremaglia, il presidente della provincia Penati, i sindaci di Reggio Calabria e di Fiumara. Il funerale di Mino Reitano, che era mancato due giorni prima a soli 64 anni per un cancro all’intestino, diede la misura concreta e precisa della popolarità di un personaggio profondamente radicato nella coscienza collettiva della gente comune, e anche profondamente stimato dai colleghi. Sincero lo strazio per la morte prematura di un artista solare, ingenuo, una sorta di Forrest Gump della canzone italiana. Il tributo dato a Reitano in quella chiesa strapiena (e piazza gremita) dove Mino si era sposato nel ‘77 con Patrizia, è stato un richiamo alla normalità dell’essere. Giuseppina, 45 anni, la figlia maggiore, custode dell’eredità artistica del padre insieme alla madre e all’altra sorella Grazia Benedetta, (44 anni, vive ancora nei pressi di Agrate nel villaggio costruito da Mino nel 1969).
È vero che era amico dei Beatles?
«Papà aveva un bellissimo rapporto con i Beatles non ancora famosi. Suonavano negli stessi locali di Amburgo. Quando McCartney arrivò come super ospite a Sanremo 1988 gli venne annunciato che c’era in gara anche una sua vecchia conoscenza, Mino Reitano. Reitano who? Non conosco nessun Reitano. Poi l’equivoco fu chiarito. Reitano si esibiva con lo pseudonimo di Benjamin. All’inizio partì da solo per la Germania, poi fu raggiunto dai fratelli. Benjamin and his brothers. Si esibivano in vari locali di Amburgo. I Beatles non si chiamavano ancora Beatles. Pete Best suonava la batteria (poi sostituito da Ringo Starr). A Harrison, Paul, Lennon, il nome Mino Reitano non diceva nulla. Lo chiamavano Benjamin. Beniamino».
Che rapporto aveva con suo padre?
«Ho deciso di occuparmi a tempo pieno di papà tutelando l’immenso patrimonio musicale di Mino Reitano autore o interprete di successi come “Una chitarra cento illusioni”, “Io per lei” (dei Camaleonti), “Una ragione di più”. Autore per molti colleghi ma anche, appunto, interprete molto originale. In casa si masticava molta musica e papà è stato un grande maestro. Ma non ho mai desiderato salire sul palco. Ho sempre lavorato per lui dietro le quinte».
Pochi mesi prima della prematura scomparsa suo padre mi telefonò. Mi disse: «Mario, pensa a te stesso, difendi te stesso».
«Qualcosa o qualcuno lo avevano deluso. Lui era molto generoso nell’amore, nei sentimenti. Probabilmente non era stato sempre ricambiato. Ma si teneva sempre tutto dentro».
Che padre è stato?
«Un padre eccezionale. Molto presente. La sua prematura scomparsa è stata devastante. Averlo avuto come papà è stato un grande privilegio. Era nato padre. Si sentiva. Dava amore. Non ci ha mai lasciate sole. Ci voleva accanto in tutte le situazioni, anche in tournée. Dispensava dolcezza, la sua era una presenza avvolgente. Insegnava ma senza essere invasivo o retorico».
I rapporti con i colleghi?
«Tutto lo ricordano in bene. Amore e rispetto del prossimo. Rapporti stretti con Morandi, Ranieri, Little Tony, Celentano. Adriano veniva per giocare a pallone nel nostro campo di calcio. A sorpresa è arrivato al funerale con Claudia. Del resto era facile diventare suoi amici. Dolce, affabile, simpatico, non sgomitava. I colleghi amavano stare con lui».
La critica lo prendeva in giro. Nel mirino la canzone «Italia».
«Ha citato l’unica canzone che lo vede solo interprete. Il testo e la musica sono di Umberto Balsamo. Lui ha pagato lo scotto di essere un cantante nazionalpopolare. Consapevolmente».
Come nascevano le sue canzoni?
«Lui aveva ispirazioni immediate. Girava con un registratore mangiacassette e lo teneva sempre pronto. Non appena gli veniva una melodia lui registrava. In seconda battuta andava al pianoforte, magari in piena notte, e sviluppava la melodia a volte con un testo maccheronico».
Amicizie?
«Con Morandi e Massimo Ranieri si sentiva spesso. C’era un clima di euforia creativa. Canzonissima, Sanremo, Cantagiro. Serate, tv».
Era un buono vero. Perché fu osteggiato?
«Forse proprio per la sua bontà. Un ragazzo semplice che però aveva tanto da comunicare a livello vocale e di composizione. Questa sua normalità fornì lo spunto a qualcuno per prenderlo in giro. E lui rispondeva creando grande musica fino alla fine».
In cosa consisteva la sua unicità?
«Stiamo di fronte a uno dei più grandi artisti popolari italiani. Coniugava ricchezza di estensione vocale e di armonici con la capacità umana di saper coinvolgere il pubblico. Essere uno di loro. Era cresciuto in grande povertà. La sua grande umanità veniva percepita dalle platee».
Politica?
«Era molto rispettoso delle idee altrui. Pur non avendo studiato assorbiva molto dai mondi che frequentava allargando la mente».
L’ha mai visto arrabbiato?
«Raramente, ma sì. Si arrabbiava di fronte a certe critiche secondo lui ingiuste. Ma non dava in escandescenze. Si chiudeva in se stesso. Rabbia silenziosa. Si sentiva ferito e stava muto. Lui dava se stesso come uomo e come artista. Alla fine forse si chiedeva se era valsa la pena di tutto questo altruismo».
Cosa penserebbe della musica di oggi?
«Papà era aperto al nuovo. Avrebbe ascoltato tutti con attenzione, interesse e curiosità. Era la sua indole».
Aveva fede?
«Sì. Tantissima. Che lo ha aiutato nella malattia. Era devoto alla Madonna, a Gesù e a Padre Pio. Ma devoto in maniera privata senza ostentazioni. Aveva un’agenda in cui scriveva tutti i giorni. Un diario. Annotava i suoi pensieri: «Ti ringrazio Gesù di avermi regalato anche questa giornata”».
Seguaci?
«Tiziano Ferro, Diodato, Marco Mengoni, il Volo, Ultimo. Non sono nomi a caso. Sono artisti capaci, come lui, di fondere capacità di vocalità, scrittura e comunicazione».
La canzone che lo rappresenta di più?
«Beh, per molti è “Italia”. Il testo non è suo, però gli calzava a pennello. Il messaggio era: “Sono legato alla mia patria e non ho paura di esprimerlo”. Alla stampa tutto questo poteva sembrare retorico. Ma lui non aveva intenti retorici. Era solo un uomo che racconta la sua storia. “Avevo un cuore che ti amava tanto” è meravigliosa, come pure “Una ragione di più”, scritta per Ornella Vanoni. Difficile fare una classifica. Mitica è “L’uomo e la valigia”, con testo di Mogol. Non so se lo rappresenta ma certamente lo racconta. Altro brano significativo di Pasquale Panella “La mia canzone” portata a Sanremo 2002».
Potenza vocale?
«Aveva una estensione vocale di oltre tre ottave. Però usava un registro medio. Tenorile. A voce piena».
Ha mai cantato nei paesi dell’Est?
«Mai. Solo negli Stati Uniti, in Canada, Australia ed Europa».
Giuseppina, qual è il suo ruolo?
«Tener viva la sua memoria. Benvenuti monumenti, piazze, strade, parchi, musei, teatri, case di accoglienza per anziani e tutto ciò che possa tener vivo il ricordo».
E i suoi gusti personali, a parte papà Mino?
«La musica italiana in generale, quelli che ho menzionato poco fa. Quelli che portano la nostra musica nel mondo».
Il rapporto con la sua terra d’origine?
«Si sentiva ambasciatore di Calabria nel mondo come dimostra l’album “Omaggio alla mia terra”. Sa una cosa? Credo che Mino sia stato capito davvero solo dopo la sua scomparsa».