Corriere della Sera, 30 luglio 2024
Intervista a Matteo Renzi. Parla di Biden e Obama
«Nell’amministrazione Obama, Joe Biden rappresentava ai nostri occhi lo zio saggio. Quello che interveniva quando bisognava ricucire le frizioni con la Casa Bianca, con gli staff e anche quelle con Barack». Eh sì, perché nel periodo in cui abitò a Palazzo Chigi Matteo Renzi riuscì a litigare anche con il presidente degli Stati Uniti. E fu attraverso certe telefonate riparatorie che imparò a conoscere il vice di Obama alla Casa Bianca. Così costruì con lui un rapporto molto stretto, culminato nel 2015 in un «colloquio privato che mi segnò». Un anno prima Biden era intervenuto «in un paio di circostanze». Nel settembre 2014, per esempio, quando «l’Italia non venne coinvolta nella stesura di un comunicato degli Stati Uniti e dei Paesi europei del G7. E io per tutta risposta bloccai una conferenza stampa della Casa Bianca che era stata già annunciata».
Addirittura.
«Bisognava esprimere la posizione comune in ambito Nato su una questione che riguardava le relazioni tra Russia e Ucraina. Solo che l’Italia non fu coinvolta nella stesura del documento. Avvisai allora privatamente che non avrei firmato. Poi per sei ore non mi feci trovare. Da Washington chiamavano con insistenza e quando decisi di rispondere ebbi una litigata epocale con Obama. Lui era furioso: “Il mio staff è qui in attesa. Ci sono i giornalisti che si domandano il motivo del ritardo. Stiamo aspettando solo te”, mi urlò. Gli replicai a tono: “Politicamente sarò pure un obamiano ma pretendo per il mio Paese lo stesso trattamento riservato a Gran Bretagna, Francia e Germania”. Perché succedeva che loro facessero le call di stesura dei documenti e che con qualche governo precedente l’Italia venisse esclusa. Mi ero stufato. Dissi a Obama: “Firmo questo comunicato se mi dai la certezza che d’ora in poi non succederà più”. Non accadde più, ma la discussione era stata molto accesa. E qualche giorno dopo...».
Arrivò la chiamata di Biden.
«Le telefonate di ricucitura erano sempre affidate a Biden. Erano sempre lunghe. Partivano sempre con una citazione di Wilmington, città del Delaware dove viveva e veniva eletto. E ogni volta lui mi raccontava di un pizzaiolo italiano che abitava lì: “Devi sapere che io ho sempre preso i voti della comunità italiana in Delaware”. “Saranno cinque gli italiani in Delaware”, gli rispondevo. Poi mi mostrava il suo lato prudente e saggio: “Tu sei molto giovane. Pensa al futuro. Hai trent’anni meno di me...”. Mi raccontava aneddoti di storia politica e alla fine metteva tutto a posto. Lezioni bellissime. Ovviamente i miei rapporti erano con Obama e con il suo staff, ma era presente anche Biden quando Barack mi chiamò per dirmi che sulla politica energetica gli Stati Uniti nutrivano forti dubbi sull’Italia».
Cosa le disse il presidente americano?
«“Siete troppo legati alla Russia”. Alludeva al rapporto Putin-Berlusconi. Obama non amava Silvio, al contrario di Tony Blair. Io avevo appena nominato all’Eni Claudio Descalzi, che gli addetti ai lavori chiamavano Claudio l’Africano: volevamo puntare sull’Africa per sostituire la tradizionale dipendenza energetica da Mosca. Provai però a spiegare che il nostro rapporto con la Russia non era legato ai trascorsi del Pci con il Pcus o a certe ragioni commerciali. E per aiutarmi citai Fëdor Dostojevski, secondo il quale “senza la Russia non c’è l’Europa, e senza l’Europa non c’è la Russia”. Non era la prima volta che usavo il famoso romanziere. Lo facevo di frequente da sindaco di Firenze. Dicevo che “quale bellezza salverà il mondo” l’aveva scritto avendo negli occhi palazzo Pitti».
Ma è provato?
«Questo è il racconto che faccio io. E Dostoevskij non lo può smentire... Sicuramente ha abitato in piazza Pitti per qualche mese e lì ha terminato L’idiota. Insomma il racconto è verosimile. Lo usai anche con Angela Merkel, mentre passeggiavamo di notte per le strade di Firenze. “Non ho mai vissuto una serata culturalmente così bella”, mi disse salutandomi».
Anche Obama ci cascò?
«Ma non sono trappole, è la bellezza della mia città… Tuttavia, no: sulla Russia la discussione fu accesa. “I miei dicono che avete un rapporto troppo privilegiato con Mosca”, insistette. “Barack, ce l’hanno più forte i tedeschi. Hai presente il North Stream 2 e Gerard Schroeder? Eppoi la nuova linea dell’Eni prevede di puntare sull’Africa per l’approvvigionamento”. A Biden la cosa piacque, perché era accanito contro la Russia. E alla fine ci fu un segno di apertura: organizzarono una visita ad alto livello di Descalzi a Washington, perché illustrasse il nuovo piano. Fu un appuntamento decisivo».
Insomma, con quel viaggio al Dipartimento di Stato del presidente dell’Eni, ancora una volta lo «zio saggio» le aveva dato una mano.
«Umanamente Biden aveva simpatia per il gruppo dei giovani democratici italiani. E tra una battuta e l’altra sul pizzaiolo del Delaware...».
Crebbe il vostro rapporto.
«Cambiò. Nell’autunno del 2015 mi chiamò il consigliere diplomatico Armando Varricchio: “La Casa Bianca ti informa che Biden verrà in Italia. È un viaggio privato”. Sarebbe stato ospitato in un borgo toscano messo a disposizione dall’ambasciatore americano, Borgo Finocchieto. Non voleva fare incontri a Roma. Aveva chiesto di parlare solo con me, ma non a palazzo Chigi per evitare il protocollo. Non capivo. Quando arrivò mi chiese: “Puoi venire tu a villa Taverna?”».
La residenza romana dell’ambasciatore americano.
«Sì, e quando fui davanti a lui vidi un uomo provato: “Sta per arrivare il giorno del Ringraziamento e non voglio trascorrerlo nella casa dove l’abbiamo sempre festeggiato insieme a Beau”. Beau Biden, il figlio prediletto, l’eroe di guerra, il suo erede politico, si era spento per un tumore al cervello. Joe aveva già perso la prima moglie e la figlia nel 1972 in un incidente stradale. Puoi essere uno degli uomini più potenti del mondo ma prima di tutto resti un padre. E Biden era un padre distrutto dal dolore. La conversazione durò 45 minuti. Parlò praticamente solo lui e parlò del figlio, di Dio, della fede, della vita eterna».
E lei?
«Mi limitai ad ascoltarlo mentre dava del tu al dolore. Tratteneva a fatica le lacrime. Uscii dalla conversazione scosso. E non mi stupii quando nel 2016 non fu candidato per la presidenza degli Stati Uniti: immaginai ci fosse un elemento personale in quella scelta».
Invece era stato Obama a scegliere, puntando su Hillary Clinton.
«Quando Obama consegnò a Biden la medaglia presidenziale della libertà, la massima onorificenza del Paese, pensai si stesse chiudendo un’esperienza».
Mentre che fosse stato Obama a non volerlo glielo confidò l’ex segretario di Stato, John Kerry.
La «bischerata»
La foto di Obama con le sigarette mentre parlava con me? Sensi con quella bischerata stava per scatenare il caos
«La medaglia voleva essere una sorta di cerimonia di addio per Biden, perché Obama riteneva Clinton la candidata più forte per la Casa Bianca. Ma a sorpresa vinse Donald Trump».
E Biden si sarebbe preso la rivincita.
«Nel 2019 informò la nostra diplomazia che mi avrebbe rivisto volentieri. Sapeva che mi trovavo in America e fu organizzato un pranzo a quattro a Villa Firenze, residenza dell’ambasciatore italiano. Oltre me e il padrone di casa, c’erano Joe e il suo braccio destro».
Chi era?
«Antony Blinken».
Il futuro Segretario di Stato.
«Già. Ero curioso perché c’erano state le prime voci sullo stato di salute di Biden. Ma lui al pranzo fu perfetto. Si mise a fare gli accenti che si usano nei vari Stati americani. Mi chiese dell’Europa e della situazione politica in Italia. E alla fine disse: “Correrò per la Casa Bianca. Lo annuncio tra un mesetto, te lo volevo anticipare”. Fu l’ultima volta che lo vidi. Stava bene, era in forma. Anche se, risalendo le scale di Villa Firenze, inciampò su un gradino».
Ma seppe vincere le primarie democratiche e poi battere Trump.
«Perché fu bravo e forse anche perché in quella campagna – svolta durante l’epidemia di Covid – gli spostamenti furono limitati. Uno dei partecipanti all’ultimo G7 mi ha detto che Biden quando sta a sedere non perde un colpo. Evidentemente fatica quando è in piedi o deve muoversi troppo».
Gliel’ha detto Giorgia Meloni o Emmanuel Macron?
«Nessuno dei due. Però ritengo giusto che il presidente americano abbia rinunciato a correre per la riconferma. Anche se all’inizio Kamala Harris non era amata dal clan Biden, perché nel primo dibattito per le primarie del 2019 era andata giù pesante contro Joe. Poi fu costretta a ritirarsi: aveva finito i soldi. Parlai di lei e di quanto le accadde in un dibattito parlamentare, proprio per spiegare che il finanziamento della politica è fondamentale nei sistemi democratici. In ogni caso fu Obama a essere decisivo per la candidatura di Biden nel 2020».
Ma se non lo aveva appoggiato quattro anni prima.
«Può darsi che nel 2016 non lo giudicasse capace di vincere, ma nel 2020 spostò tutto il partito democratico in suo favore. Convinse persino Pete Buttigieg, il primo gay di un governo americano, veterano di guerra in Afghanistan, che lo stesso Barack mi aveva presentato tempo prima come “il prossimo presidente degli Stati Uniti”. Fu Obama che portò Biden alla Casa Bianca nel 2020».
Ed è lui che l’ha voluto fuori dalla Casa Bianca, anche se avrebbe preferito un candidato democratico diverso da Harris.
«Probabilmente aveva un’idea diversa. Ma lui ha sempre amato Kamala. La impose alla vice presidenza. E fu lui nel 2012 a presentarla come “la più bella procuratrice americana”, prima di doversi scusare con le femministe per quella frase».
Anni dopo andò in difficoltà a causa di una foto scattata da Filippo Sensi, oggi parlamentare del Pd e allora suo portavoce, dalla quale si intuì che stava fumando.
«Ma magari non erano sigarette, chi lo sa».
Avanti...
«Eravamo io e lui da soli in terrazza a chiacchierare al G7 tedesco. I media americani vedendo quello scatto equivoco iniziarono a ricamare sul fatto che Obama avesse ripreso a fumare. Il punto è che Barack aveva promesso a sua moglie che non l’avrebbe più fatto. Sensi con quella bischerata stava per scatenare il caos».
Perché aveva beccato Obama mentre fumava.
«Sa che non ricordo se fossero davvero sigarette?». (ride)
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