il Fatto Quotidiano, 30 luglio 2024
Santa Monica e le tombe di chi lucidò Hollywood
Il contrasto tra le riserve indiane e Santa Monica, comune”Vip” della grande Los Angeles, non potrebbe essere più stridente. Finisce in California l’epopea western, Hollywood trasfigura le “anime morte” del Mid West e delle Grandi Pianure sugli schermi di tutto il mondo, reinventa e mistifica, per decenni, il genocidio, tranne pochi grandi film, da Soldato blu a Piccolo grande uomo e Balla coi lupi.
Los Angeles è anche il mio approdo, a due passi dal Santa Monica Pier, il molo con la giostra panoramica e l’ottovolante già set di molti film per irregolari e ribelli: Forrest Gump, Il Grande Lebowski e La Stangata, il cui carousel, la giostrina con i cavalli, ha visto ruotare la truffa degli imbroglioni Paul Newman e Robert Redford.
The Industry, la macchina del cinema hollywoodiana continua a narcotizzare e a far sognare, inventando dissidenti, banditi e anticonformisti, epicamente erranti nei grandi spazi. Piccoli grandi uomini e donne in lotta solitaria contro il più forte – siano la natura o i cattivi istinti – in fondo è questa l’anima del Western.
Il tempo di abbracciare Lenny, l’amico che mi ospita e conosce bene Torino e il Piemonte, e sono sull’Ocean Drive, dove finisce la Route 66 e a pochi passi dalla statua di Santa Monica – la madre di Sant’Agostino, il maestro del dubbio, della ricerca della verità e di se stessi – per omaggiare la serie tv Goliath, altro simbolo di resistenza. L’avvocato Billy McBride (Billy Bob Thornton) lotta con l’alcol e i soprusi dei giganti multinazionali. Deboli contro i forti, the same old story.
Billy risiede all’Ocean Lodge, il motel ha un’insegna inconfondibile, gialla e blu con le palme. Una scena memorabile riassume la lucida follia necessaria per impegnarsi in certe battaglie: “Tu sarai pure un duro – dice a un agente corrotto che lo ha fatto pestare – ma io sono un pazzo e la differenza è che i pazzi non si arrendono mai. Tienilo a mente”.
C’è aria di garra sudamericana a Los Angeles, città fondata dagli spagnoli: el Pueblo de Nuestra Señora la Reina Virgen de los Ángeles del Río de la Porciúncula de Asís. I poveracci non mancano nemmeno a Santa Monica, avvisaglie di crisi: qualche negozio sbarrato, homeless che compaiono all’angolo degli ampi marciapiedi, tra le palme, non più solo accampati nelle vie di Downtown.
Il baratro tra ricchezza e povertà è parte del sogno americano (che per l’Europa e l’Italia ora è prossimo all’incubo), galoppa orgogliosamente con la bandiera a stelle e strisce, come le cow-girl nel rodeo di Cody, città fondata da Buffalo Bill, eroe del troppo e dello show-business, stragista di bisonti.
I poveracci scartano di lato e cadono, la locomotiva del business tira diritto, trasformando gli scomodi e i concorrenti in “ostili”. Tecnica antica: il termine “Sioux” deriverebbe dal francese e sta per “piccoli serpenti”, “nemici”, mentre “Lakota” vuol dire genericamente “amico”, “alleato”. Altrettanto per “Comanche”, categoria spirituale usata in una celebre scena di Hell or High Water di Taylor Sheridan: “Nemico”, “Colui che combatte”.
Lo stridere delle differenze non balza più agli occhi di nessuno, nell’era della riccanza: prima di arrivare qui, di salire sull’aereo a Salt Lake City, tutto sembra già Hollywoodiano: le freeway nella città dei mormoni, il loro tempio e il sorriso di alcune “sorelle”, l’enorme Mall che racchiude il centro in una bolla di luci al neon e aria condizionata. Per trovare una birra mi rifugio nel sudaticcio bancone di un meraviglioso pub irlandese senza aria condizionata, mi ricorda il “Saloon No. 10” sulla strada principale di Deadwood, l’antica cittadina mineraria delle Black Hills dove venne ucciso a un tavolo da poker James Butler Hickok detto Wild Bill. Il pistolero è sepolto nel cimitero della cittadina, fondata illegalmente su un terreno concesso agli Indiani nel trattato di Fort Laramie, nel 1868. Vicino a lui c’è la sodale (e forse compagna) Calamity Jane, cowgirl e proto super-woman che scortava le diligenze, sparava, vestiva da uomo, si ubriacava e giocava d’azzardo.
Un altro simbolo (un po’ diverso) femminile lo trovo al Westwood Village Memorial Park Cemetery di Los Angeles, luogo dello spirito non lontano da Beverly Hills. Dopo la concessione modaiola di un brunch da Lulù, raffinato locale di una big di Slow Food (sia gentile, Mrs Alice Waters, migliori il caffè, per noi italiani è importante) saluto Marylin Monroe, sepolta nell’oasi verde tra i palazzoni in compagnia di un manipolo scelto della Hollywood più geniale e politicamente scorretta. Liberi pensatori e provocatori come Hugh Hefner, fondatore di Playboy, che sorride sornione a pochi metri da Marylin: lei ha una foto e baci stampati col rossetto sul marmo rosa. Trovo William Hart, arcinemico di Billy Bob Thornton in Goliath, Ray Bradbury e Truman Capote, Spartacus Kirk Douglas, Walter Matthau e Jack Lemmon (Sindrome cinese, Missing) che sulla tomba come epitaffio ha solo il nome e “in”, come dovesse seguire il titolo di un film.
Infine, c’è quasi da cadere in ginocchio, il genio galiziano Billy Wilder. Sulla sua tomba la battuta finale di A qualcuno piace caldo: “Sono uno scrittore, d’altra parte, nessuno è perfetto”. Nobody’s perfect. Wilder fuggì dai pogrom ed ebbe madre, patrigno e nonna uccisi nei lager. Disse “Gli ottimisti sono finiti ad Auschwitz, i pessimisti a Hollywood”, forse per continuare a sperare, con un sorriso, in un Occidente devastato, che oggi è più che mai in declino e ha perso la sua etica e la sua bellezza.