la Repubblica, 30 luglio 2024
Lenin, il cervello di Vladimir
Neanche la bara di Ilic che esce di casa e procede per quattro chilometri verso la stazione tra i contadini schierati ai bordi della strada impone una tregua nella battaglia sotterranea per il potere. La folla non sa: vede i leader sostituirsi a vicenda nel reggere la bara sulle spalle, soffiare via i fiocchi di neve dal volto di Ilic, che nell’aria d’inverno sembra aver ripreso il suo colore naturale. Ignora che i medici hanno scandagliato a lungo quel corpo nell’autopsia. Non immagina che nel bagno al secondo piano si è svolto un rito idolatrico, più vicino alla superstizione che alla medicina: il Bjuro ha infatti chiesto al professor Abrikosov di estrarre subito il cervello di Vladimir Ilic, per cercare il “segreto del genio”, una sorta di gene del comunismo. Non il cuore, come avrebbe dettato un canone religioso: ma il cervello, come se la scienza potesse scoprire la fisiologia della storia, in una sorta di divinazione pagana, alle soglie della negromanzia. Tanto che il comandante Pakaln, quando sente parlare della ricognizione medica sul cervello di Lenin decide di sdoppiare la guardia: due uomini resteranno accanto al corpo di Ilic, altri due seguiranno il cervello: «Ora lo portano qui. Voi dovrete essere sempre presenti, e sorvegliare».
Poco dopo nel bagno piastrellato con vasca, doccia e tavolino da toeletta, entra il Commissario del Popolo per la Salute, Nikolaj Semashko, portando un vaso di vetro col coperchio chiuso. Si guarda intorno e poi lo posa sul davanzale di una delle due finestre: dentro c’è il cervello della rivoluzione e della dittatura, che senza la membrana pesa 1340 grammi e ha i ventricoli dilatati, in particolare quello sinistro, con la parte frontale di quell’emisfero leggermente infossata. Il cervello viene messo in una soluzione di formalina e in pochi mesi si crea un laboratorio speciale per studiarlo in profondità, l’Istituto di Ricerca del Cervello dell’Accademia delle Scienze Mediche dell’Urss, affidato al neurologo tedesco Oskar Vogt. È lui che guida la prima analisi del cervello di Vladimir Ilic, sezionato in 30.953 segmenti, ciascuno dello spessore di 0,02 millimetri. Al professore i bolscevichi spiegano che Lenin aveva una memoria prodigiosa, che scriveva in inglese, francese e tedesco, leggeva l’italiano e anche il greco, e che già il ginnasio di Simbirsk lo premiò ragazzo con la medaglia d’oro: ma se nel cervello c’erano tracce rivelatrici di queste facoltà il professor Vogt non le trovò, e si limitò a certificare che «le cellule piramidali risultano molto grandi e numerose nel terzo strato della corteccia cerebrale»: anche se ben presto si accerterà che la citoarchitettura del cervello non ha rilevanza nelle capacità intellettuali dell’individuo. Dunque quelle 31 mila particelle in sequenza non rivelarono nulla nonostante le speranze miracolistiche di una mappa cerebrale della rivoluzione, o almeno dell’impronta metafisica della leadership. Così nel 1928 Vogt se ne andò da Mosca portandosi via una delle porzioni che aveva sezionato, e lasciando il cervello di Lenin nell’istituto che continuerà a custodirlo, per sempre separato dal corpo, reliquia della reliquia: una mostrata al popolo, l’altra indagata dal partito, come se la salma vuota fosse pura rappresentazione e l’encefalo racchiudesse il vero arcano di una vita, la formula ideologica dell’Ottobre e la sua ragione.
Alle 10 di quel mattino di martedì, il giorno dopo la morte di Lenin che la Russia ancora ignorava, al teatro Bolshoj erano convocati i 1637 delegati dell’XI Congresso panrusso dei Soviet. Ma l’assemblea non riusciva a partire, come se la giornata fosse troppo pesante per aprirsi davvero, e incominciare. Il palco era vuoto, il Praesidium non si decideva a entrare in scena, mentre cresceva il mormorio dei delegati, insieme con le domande via via ingigantite in dubbi, voci e paure, come testimoniano i versi elettrici di Vladimir Majakovskij, presente in sala:«È ora di incominciare, ma perché si ritarda? Perché il “Presidium” si è diradato/come un bosco dov’è stata abbattuta una pianta?/ Perché gli occhi sono più rossi del velluto del palco?/ Qualcosa è accaduto. Una disgrazia?/ Ah, no! Come è possibile questo?/Il soffitto s’abbassò su di noi come un corvo./Si chinarono le teste, si chinarono ancora./Tremando divennero buie le luci dei lampadari,/ s’incantò l’inutile suono del campanello». La massa dei delegati capisce prima ancora dell’annuncio, alle 11, quando il presidente del Comitato Centrale Mikhail Ivanovic Kalinin si avvicina al microfono ma non riesce a parlare, sopraffatto, e con un gesto invita tutti ad alzarsi in piedi mentre parte la marcia funebre, che spiega tutto da sola. «Vi porto notizie terribili sul nostro caro compagno Vladimir Ilic – dice infine Kalinin – Ieri ha avuto un nuovo ictus che lo ha paralizzato, ed è morto». Nel chiuso della sala, circondata dalla musica dei grandi lutti, la commozione diventa isteria: pianti, grida, invocazioni, maledizioni e il nome di Lenin che rimbalza come una preghiera adirata nello stordimento dei palchi e della platea.
Il Cremlino incomincia a intuire cosa sarà il funerale: qualcosa fuori dall’ordinario, con la rivoluzione che dopo sette anni deve tumulare se stessa per continuare a vivere. E le esequie che diventano un evento di popolo spettacolare, certo emotivo, addirittura storico, quindi politico nel suo significato profondo. Bisogna raccogliere questa grande emozione collettiva, non disperderla ma estenderla a tutto il Paese, far sì che nessuno si senta escluso ma che ciascuno possa dire “io c’ero”, diventando un testimone. «La massa operaia – spiega Zinov’ev – vive una seconda volta la sua rivoluzione». Dunque c’è bisogno di tempo, si deve permettere a tutto il Paese di sfilare davanti alla bara di Ilic che verrà esposta nella sala delle Colonne, alla Casa dei sindacati. Tre giorni, anzi meglio ancora quattro, con il corteo che si snoda nel saluto finale anche di notte, in una specie di giganteschi e collettivi “pominki”, le veglie funebri russe che obbligano a non lasciare solo il corpo del defunto, a volgergli leggermente il capo verso est, a illuminare la scena soltanto con le candele e il loro gioco di ombre tremule, senza l’irruzione profana e totale delle lampade elettriche. La cerimonia solenne del funerale deve aspettare, si svolgerà soltanto domenica pomeriggio. Prima conseguenza: il corpo di Lenin dev’essere conservato fino a quel momento, ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, confidandoanche nel contesto di ghiaccio di quel gennaio, con Mosca a 32 sottozero. Un messaggio parte subito per Gorkij, consegnato a mano da una staffetta militare all’anatomopatologo Abrikosov.
Il professore aveva finito da poco l’autopsia più delicata della sua vita, perfettamente consapevole fin dal primo taglio di bisturi – alle 11.10 precise – di incidere insieme per la prima volta il corpo e il mito. Lo assistevano nove medici, sotto la supervisione politica del Commissario Semashko. Le operazioni durarono quattro ore e mezza, fino alle 15.50, ma non finirono con l’analisi del cadavere. La stesura del documento autoptico, scritto a mano, fu infatti particolarmente travagliata, come testimoniano le cancellature, gli inserti, le modifiche, i ripensamenti e le correzioni presenti nelle tre successive versioni del protocollo finale. «Il cadavere è di un uomo anziano di corporatura normale, alimentazione soddisfacente. Si manifestano piccole macchie a pigmento sulla pelle del torace, mentre nella porzione posteriore del tronco sono evidenti ipostasi cadaveriche pronunciate. Il
dei muscoli è molto chiaro. Una cicatrice di due centimetri è presente nell’area della clavicola destra, un’altra sulla superficie della spalla sinistra, una terza sul dorso nella regione della scapola sinistra. Un callo osseo è rilevabile sul lato dell’omero sinistro, dove è palpabile un corpo tondeggiante: nella sezione, tra il grasso sottocutaneo e il muscolo deltoide si rinviene un proiettile deformato ricoperto da una guaina di tessuto connettivo».
Avvolto nella storia, protetto dalla leggenda riemerge uno dei due proiettili con cui Fanja Kaplan il 30 agosto 1918 centrò il corpo di Lenin, alla fine della sua visita alla fabbrica Michelson a San Pietroburgo, quando la rivoluzione aveva appena un anno. L’altra pallottola, anch’essa intinta nel curaro e rimasta sottopelle, era stata asportata chirurgicamente nel 1922 dai medici convinti che rilasciasse piombo avvelenando lentamente Vladimir Ilic, e causando i suoi malesseri misteriosi e continui. Anche adesso, nel 1924, quel proiettile inventariato dall’autopsia diventa l’agente segreto che insinuandosi nel corpo della rivoluzione determinerà la morte di Lenin, una sorta di
che risolve tutto senza spiegare niente. Estratto e sequestrato il cervello, si analizza il cranio vuoto: «Rimossa la palpebra cranica si nota una densa adesione con l’osso della duramadre, la cui superficie esterna è opaca, pallida, con una pigmentazione giallastra nella regione frontale e in quella temporale sinistra. La superficie interna è liscia, umida e lucida, facilmente separabile dalla sottostante guaina cerebrale, tranne che nelle parti vicine al solco sagittale, dove sono visibili rigonfiamenti. I seni della base contengono sangue liquido». Si arriva al referto. «Diagnosi anatomica: aterosclerosi diffusa delle arterie con una lesione molto pronunciata delle arterie cerebrali. La carotide interna, proprio all’ingresso del cranio, si presenta così indurita che le sue pareti alla trasposizione trasversale non sono crollate, e in alcuni punti erano talmente rivestite di calce da rispondere ai colpi delle pinze come se fossero d’osso. Su tutto l’emisfero sinistro erano presenti cisti. I vasi ostruiti non portavano sangue a queste aree cerebrali, la cui nutrizione era discontinua, tanto che il tessuto si indeboliva fino a disintegrarsi. È impossibile vivere con vasi cerebrali in questo stato». Conclusione: «La base della malattia del defunto è l’aterosclerosi vascolare comune, per un’usura prematura. In seguito all’insufficienza del flusso sanguigno si sono manifestati indebolimenti locali dei tessuti cerebrali che spiegano tutti i sintomi riscontrati della malattia, dalla paralisi ai disturbi del linguaggio. La causa immediata della morte è stata un aumento dei disturbi circolatori nel cervello, con un’emorragia nella membrana cerebrale morbida nell’area della tetraplegia». Degli undici medici che hanno preso parte all’autopsia, dieci firmano il protocollo finale. Uno solo non scrive il suo nome sul documento: è il dottor Fedor Alexandrovic Guétier, amico personale di Lev Trotzkij e da qualche anno medico di famiglia di Vladimir Ilic.
È il primo segno della cauta e sotterranea opposizione di Nadezhda Krupskaja, la vedova di Lenin, al nuovo potere staliniano. Un dissenso controllato ma evidente fin dal primo giorno, quando nella commissione per i funerali guidata da Dzerzinskij parte la discussione sul destino della salma di Lenin. L’idea di mummificare il corpo non ha genitori quindi si pensa sia di Stalin, e come accadrà spesso in Urss viene fatta nascere «dal popolo», attribuendola ai messaggi dei cittadini che hanno paura di perdere Lenin per sempre e dunque si rivolgono all’onnipotenza del partito e all’incantamento fantascientifico per far durare quella presenza: «Non copritelo di terra». In realtà già nel novembre 1923, vale a dire due mesi prima della morte di Vladimir Ilic, una riunione informale del Politbjuro senza verbale discute le misure eccezionali da adottare in caso di decesso del “Vecchio”, e spunta per la prima volta l’ipotesi di imbalsamare il corpo, con il sostegno di Stalin e Rykov e con l’opposizione indignata di Bukharin e soprattutto di Trotzkij, contrario a trasformare il Capo del partito in una sacra reliquia sul modello del monaco santo Sergej di Radonez e del mistico eremita Serafim di Sarov. Ma Lenin non aveva lasciato indicazioni sui suoi funerali, o se le aveva lasciate, erano sparite: si sapeva soltanto che visitava periodicamente la tomba della madre Marija Alexandrovna e delle sorelle Anna e Olga al cimitero Volkov di San Pietroburgo, e che era stato favorevole all’apertura del primo crematorio nella vecchia capitale. Ma il Bjuro respinge l’idea della cremazione, «non è da vero uomo russo», come ripeteva Rykov. No al fuoco, no alla cenere, no alla terra, anche perché i cimiteri spesso sono vicini a chiese e monasteri, che Lenin non frequentava.
A suo nome parla Nadezhda con una lettera alla
del 30 gennaio, appena cinque giorni dopo che il Praesidium del Soviet Supremo ha deciso «di preservare il corpo di Lenin per un tempo molto lungo». L’appello della vedova è dunque un gesto di aperta opposizione, su una questione divenuta immediatamente politica, perché riguarda i confini dell’autorità di Lenin e la pretesa del partito di cancellare il limite tra la vita e la morte: «Compagni, operai e contadini, devo fare a tutti voi una grande preghiera: non lasciate che la vostra tristezza per la morte di Ilic diventi venerazione esteriore della sua figura. Non edificate sacrariper lui, monumenti con il suo nome, non organizzate manifestazioni pubbliche per celebrare il suo ricordo. Sono cose che hanno sempre significato pochissimo per lui quando era vivo, anzi lo disturbavano. Piuttosto, sapete bene quanta miseria e quanto disordine ci siano ancora nel nostro Paese: se volete celebrare il suo nome costruite scuole, asili, ospedali e prima di tutto cercate sempre di vivere secondo i suoi insegnamenti». Uno scarto, contro la trasposizione del cerimoniale funebre di Lenin dal territorio degli affetti e degli omaggi a quello dell’estetica di potere, per finire poi nel campo dell’ideologia di partito. Qui, come la Krupskaja ha capito, Stalin aspetta la salma del “Vecchio” per impadronirsene una volta per sempre reiterando la sua morte, e fissando in perpetuo il momento in cui la gerarchia politica dell’Urss si trasforma in dinastia, nel passaggio da un Capo all’altro mentre la liturgia rimane intatta, per una fede immobile.
Tutto è deciso, la famiglia è ormai contorno. Due figure sole contano, il fondatore che continua a morire, e l’erede che comincia a regnare, risalendo dal dominio sul corpo alla piena sovranità politica su Vladimir Ilic. Stalin diventa padrone di Lenin, supremo sacerdote del suo culto, unico custode e interprete della sua storia, amministratore esclusivo della sua memoria: e un corpo scavato, smembrato, camuffato è il simulacro perfetto per questa operazione di travaso controllato tra il prima e il dopo, nel travisamento delle due età e nel materialismo pagano di una salma elevata a icona universale mentre in realtà è svuotata a spoglia privata. La morte di Lenin esposta fingendo una resurrezione assicura una perenne investitura al nuovo leader. Bisogna procedere: ma come? Anche per la suggestione della recente scoperta a Luxor della mummia di Tutankhamen, comincia a imporsi l’idea di una seconda vita artificiale attraverso l’imbalsamazione, il “rito dei Re”, come ripete Felix Dzerzhinskij: che intanto ha visto il suo comitato organizzatore dei funerali di Vladimir Ilic diventare «commissione per l’immortalità della memoria di Lenin». Siamo giunti alle soglie dell’eternità. Bisogna varcarle insieme con Lenin, ciò che resta di lui e ciò che significa nell’immaginario popolare, quando il corpo diventa salma e quell’immagine fissa per sempre la memoria nell’ortodossia funebre, immutabile. In sostanza bisogna fermare il tempo a quell’ultima ora tra la vita e la morte che ognuno racconta a modo suo, convergendo comunque su quell’ora iconica, uguale per tutti: 18.50.
Alexej Abrikosov capisce che tocca a lui, il messaggio che gli ha inviato il Cremlino è chiaro: bisogna prolungare l’esposizione del cadavere, dopo che in quattro giorni mezzo milione di persone è passato davanti al feretro, nella Sala delle Colonne. Il professore è un anatomopatologo famoso, non un imbalsamatore. Immerge il corpo in una soluzione già sperimentata con il cervello di Ilic, formalina, alcool, cloruro di zinco, acqua e glicerina: poi, chissà. Anche perché Alexej Ivanovic non è un sacerdote, e mentre la città sfila davanti a quel corpo di cui lui deve diventare custode, si rende conto che il potere si attende un rito quasi sciamanico per raggiungere l’essenza del leninismo, e farne la base di un culto permanente officiato dal partito per il popolo. Ecco il prologo: la domenica sembra che tutta la Russia si sia riversata sulla Piazza Rossa per l’addio a Lenin, attraversando la città assediata dal freddo, sostando davanti ai falò accesi dai soldati agli incroci. Sono sei gli uomini del Bjuro che portano la bara verso la cripta in legno costruita in pochi giorni picconando il ghiaccio davanti al Cremlino: Stalin, Molotov, Kalinin, Bukharin, Kamenev e Tomskij.
Manca Trotzkij, e quando la salma entra nella cripta e la torre batte le quattro, Lev Davidovic è sulla terrazza del ‘sanatorij’ di Suchum, la casa climatica di riposo tra le mimose già fiorite e le palme, e sta guardando il mare da dove arriva il frastuono delle scariche a salve per l’ultimo saluto della città a Lenin. Trotzkij ha appena ricevuto una lettera scritta a mano da Nadezhda Krupskaja: «Caro Lev Davidovic, vi scrivo per comunicarvi che Vladimir Ilic un mese prima di morire aprì il vostro libro nel punto in cui parlate di Marx e Lenin e mi pregò di rileggergli quel passo. E vi voglio dire anche questo: i sentimenti che sono nati in Ilic verso di voi quando siete venuto da noi a Londra dalla Siberia non sono mai mutati, fino alla sua morte. Vi auguro forza e salute e vi abbraccio di cuore». Ancor più, dopo aver letto il messaggio, lui si sente fuori posto. Doveva essere lì, in ogni modo. Quante persone saranno rimaste sconcertate non vedendolo nella piazza dei funerali? Cosa avranno pensato? Lo capisce qualche giorno dopo, quando riceve la lettera di suo figlio che gli scrive di essere corso in giacca e camicia nella furia polare di Mosca fino alla sala delle Colonne sicuro di vederlo, e di essersene andato solo a funerali conclusi, disperato per non averlo incontrato, e soprattutto senza spiegazioni per quell’assenza. Con la trappola di Stalin, la figura di Trotzkij dopo gli scontri nel chiuso del vertice bolscevico sta cominciando a impallidire in pubblico, davanti al popolo. Lui lo capisce, ma non sa più come reagire: «Perdere il potere – confesserà – non è come perdere un orologio…».
C’erano tutti, meno lui. E chi non era previsto in presenza, come il Patriarca Tikhon, aveva comunque inviato un messaggio con il «sincero rammarico» del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa «per la morte del grande liberatore del nostro popolo dal regno dell’immane violenza e dell’oppressione. Che l’immagine luminosa del grande combattente per la libertà degli oppressi risplenda nella lotta per la piena felicità degli uomini sulla terra». Dunque i cristiani, domandò qualcuno al Patriarca, potevano commemorare Lenin insieme con i bolscevichi, nonostante i delitti contro la Chiesa e la sua persecuzione? Tikhon allargò le braccia, paterno, comprensivo, e soprattutto prudente: «Vladimir Ilic non è stato scomunicato dalla più alta autorità ecclesiastica dell’Ortodossia, e quindi ogni credente ha il diritto e l’opportunità di commemorarlo». Dal Sacro Anatema contro l’Anticristo a questa benedizione post mortem erano passati solo sette anni, e la rivoluzione silenziosamente strappava già l’indulgenza plenaria: in attesa che s’inaugurassero gli anni del Terrore.