Robinson, 29 luglio 2024
Intervista a Ermanno Paccagnini
Quello che non ti aspetti è la grande passione per il rock. Le edizioni pirata di concerti che sarebbero passati alla storia della musica. «Allora insegnavo, mi piaceva insegnare nelle scuole. Quello della musica mi pareva un buon mezzo per comunicare, al di là di Dante, Boccaccio o Manzoni. Poca musica italiana, qualche cantautore. Ma la vera scoperta furono per me Frank Zappa e gli Iron Maiden».Ermanno Paccagnini, critico letterario rivestito di una certa militanza giornalistica, 75 anni compiuti, docente per lungo tempo alla Cattolica, non si sente in nessun modo debitore di qualche illustre maestro.Quello che ha fatto è stato solo applicare il metodo rock: «Ho ascoltato musica e letto libri seguendo la regola semplice del mi piace non mi piace. Ovviamente non basta farsi catturare da una bella pagina o da un brano. Devi anche sapere perché. E qui entrano in gioco il gusto e il sapere».Come storico della letteratura quali epoche hai privilegiato?«Sicuramente l’Ottocento e il Novecento. Ma anche il Seicento e poi Boccaccio. In tutto avrò prodotto una cinquantina di opere. Tasselli di una vita segnata da gusti personali e curiosità fuori dalle tendenze e mode letterarie».Qualche volta le tendenze le hai anticipate. Penso al tuo lavoro su Scerbanenco o alla riflessione sulla nascita in Italia del genere poliziesco.«Assistiamo da anni al boom del poliziesco. Pochi sanno che il genere attecchì in Italia alla vigilia della Prima guerra mondiale. La prima collana di gialli è Sonzogno a inaugurarla, nel 1914. Escono con successo leAvventure di Arsenio Lupin. Nel 1930 Nerbini pubblica in volume leAvventure di Sherlock Holmes.Nel 1929 nasce la collana del Giallo Mondadori».Si estende la presenza dei lettori.«Diciamo che si rafforza in alcune fasce del Paese l’idea che il libro sia un oggetto di consumo. C’è chi, come la rivista satirica Marc’Aurelio, ironizza sul nuovo costume letterario. Lo scrittore Luciano Folgore smonta, con esiti umoristici, il giocattolo della nuova moda, parodizzando la figura di Sherlock Holmes».Folgore è un beniamino dei futuristi.«Marinetti lo definisce “potente e ammirato poeta parolibero”. È uno scrittore giocoso e divertito, incline al calembour. Aderisce al futurismo e “Folgore”, non a caso, è lo pseudonimo. In realtà si chiama Omero Vecchi. La sua adesione all’avanguardia e la scoperta del genere poliziesco lo spingono a una curiosa sintesi:La trappola colorata rifà il verso a Conan Doyle ma con una spruzzata di marinettismo».Chi invece segue il proprio istinto di scrittore fino a diventare un classico del poliziesco è Scerbanenco.«Effettivamente rappresenta un caso unico. DucaLamberti, il detective e prima ancora medico radiato dall’ordine perché pratica l’eutanasia, è il primo grande protagonista di una serie che da Venere privata in poi troviamo nei romanzi di Scerbanenco. La dolente umanità, ricca di risvolti esistenziali, fa di Duca Lamberti l’archetipo letterario dei tanti investigatori che verranno dopo. E poi c’è Milano, che Scerbanenco sa come pochi raccontare benissimo».Era nato a Kiev.«Da padre russo e madre italiana. Si sposarono a Roma ma si stabilirono in Ucraina. La famiglia si separò allo scoppio della Prima guerra mondiale. Quando madre e figlio nel 1920 tornarono nuovamente a Kiev scoprirono che il padre era stato fucilato dai bolscevichi. Riuscirono dopo mille peripezie ad ottenere un visto per Italia.Scerbanenco, che ebbe la cittadinanza solo dopo parecchi anni, raccontò di sé sempre con discrezione.Scrisse che la sua vita non era un romanzo. In realtà si deve al fatto che la sua vita era stata tragicamente avventurosa la sua capacità di riconoscerla nelle storie che ha raccontato».C’è un rapporto tra la scrittura e la vita?«Certamente la scrittura è un modo per mettere ordine al caos della vita. Ma quando si scrive si è nella parola e questa solo dovrebbe contare per il critico che si muove tra casualità e filologia».Tu hai preso parte ai corsi di un grande filologo, Giuseppe Billanovich.«Seguii i suoi corsi alla Cattolica avvertendo il grande respiro delle sue lezioni. Una competenza formatasi nel biennio trascorso all’Istituto Warburg di Londra e nei dieci anni di insegnamento a Friburgo. Fu Contini a fargli ottenere la cattedra. Si erano conosciuti a Firenze in casa di Giorgio Pasquali».Un filologo chiederebbe mai perché si scrive?«Avrebbe qualche difficoltà, se non altro a decifrare le intenzioni di chi lo fa. Mentre uno scrittore è più libero di porsi una domanda così diretta. A vent’anni Goffredo Parise provò a interrogarsi su quali motivazioni poggiasse il suo gesto dello scrivere. Non trovò una risposta. Disse semplicemente che non sapeva perché avesse scritto il suo romanzo di esordio: Il ragazzo morto e le comete. Scrivere è quanto di più misterioso o scontato ci possa essere».Anche leggere è frutto, almeno all’inizio, di questa inconsapevolezza?«Credo che all’inizio della lettura ci sia lo stupore e il disorientamento. Si entra in un libro come in un labirinto. Non sai dove ti condurrà, quale sarà l’uscita.Leggere non deve essere un obbligo, al più una scommessa».Che ti porta dove?«Inizi da un romanzetto harmony e scopri che quel mondo un po’ sdolcinato è solo il primo scalino di una grande avventura. Che, se hai fortuna, ti condurrà a Dante e a Manzoni».A Manzoni hai dedicato molto impegno.«Studiando soprattutto gli aspetti apparentemente marginali delle sue opere. Il fatto per esempio che rispetto aFermo e Lucia Manzoni cambia il finale deiPromessi sposi, rendendolo simile al finale del Secondo Libro dei Maccabei».Ma che bisogno ha di richiamare dei testi probabilmente apocrifi del Vecchio Testamento?«Con la premessa e il finale dei Promessi sposi Manzoni crea una cornice per il lettore. È come se gli dicesse: caro lettore, non ti sto coinvolgendo nei problemi linguistici che sollevavo inFermo e Lucia ma voglio darti con iPromessi sposi il grande romanzo popolare».Ma perché il richiamo alla Bibbia?«Perché la Bibbia è il grande romanzo popolare. Ma c’è un altro motivo che si capisce leggendo La storia dellacolonna infame, l’appendice che Manzoni scrisse aiPromessi sposi. Vi si racconta il processo, durante la peste a Milano del 1630, ad alcuni disgraziati accusati di essere responsabili del contagio in città. Uno dei presunti untori coinvolti dice: “Potete anche torturarmi ma non posso confessare ciò che non ho commesso, Dio mi è testimone”. È questo che colpisce Manzoni, che arriva a considerare quella testimonianza alla stregua di un martirio. Ed è la stessa situazione che Manzoni ha riscontrato nel Libro dei Maccabei, dove si assiste all’ingiusto processo nei riguardi dei sette fratelli maccabei».Perché a tuo avviso è così importante il testo manzoniano?«LaStoria della colonna infame anticipa di 120 anni La banalità del male di Hannah Arendt».In che senso?«L’operato di Eichmann non è diverso da quello dei giudici che condannano due innocenti. Essi soggiacciono alla cieca furia popolare che esige una vittima sacrificale, a prescindere da ciò che hanno fatto. Manzoni è il primo a cogliere negli effetti giudiziari della peste i meccanismi che regolano la burocrazia del male. Ma era troppo in anticipo perché un’intuizione così forte potesse essere pienamente compresa».È questo che ti affascina di Manzoni?«Non lo so cosa mi affascina. Spesso le scoperte sono frutto di casualità, poi magari diventano filologia. PerManzoni da cosa nasce la storia dei maccabei? Entrare in questi dettagli, nell’uso delle letture che ha fatto è tra le esperienze più eccitanti. La stessa cosa mi è accaduta con Carlo Collodi. Sono scrittori-lettori che lavorano su materiali che spesso non conosciamo. Il compito è scoprire la luce che gettano sulle loro opere».Resta il fatto che a uno studente si deve dare un’idea complessiva dell’autore«Con i miei studenti esordivo dicendo che Manzoni è un grande sconosciuto. Molti presumono di sapere cosa sono iPromessi sposi ma quasi nessuno conosce laStoria della colonna infame. Il che ne pregiudica il senso».Perché?«Quel romanzo non è la semplice storia di Renzo e Lucia. Si compone di tre storie in una: iPromessi sposipropriamente detti, laStoria della colonna infame, e le illustrazioni di Francesco Gonin che fanno da collante all’appendice. Nell’ultima pagina dei Promessi sposi, si ha la scena della famiglia felice. Ma accanto c’è l’immagine della casa distrutta dell’innocente giustiziato su cui si erge la colonna. La storia di Renzo e Lucia finisce bene, ma l’immagine che chiude laStoria della colonna infame, suggerisce un finale completamente differente».Diciamo un doppio finale.«Un finale che getta un’inquietante interrogativo sul senso della giustizia. Renzo e Lucia, come Daniele, sono stati gettati nella fossa dei leoni; alla fine arriva l’angeloe li salva. Nell’immagine di Gonin c’è la fossa dei leoni ma l’angelo non compare. Troppo comodo, ci sta dicendo Manzoni, che qualcuno arrivi per tirarci fuori dai guai. Di qui il suo richiamo fortissimo alla responsabilità morale dell’individuo».Insomma, davanti al male bisogna provare a cavarsela da soli, decidere da quale parte stare. Ma allora la Provvidenza?«Non basta affidarsi al disegno divino. È questo che alla fine Manzoni ci dice, con la sua grande e tormentata lezione».È una lezione che hai seguito personalmente?«Da cattolico posso dire di sì. Sono un credente e cerco di vivere la mia fede intensamente pur nelle difficoltà che una situazione come quella attuale presenta. Però non mi sono mai posto il problema della ricaduta della fede sul mio lavoro. Se un libro vale, perché non ne devo parlare anche non condividendone le idee?».Condividere la forma.«Sì, ma oggi riconoscersi in un libro è molto più difficile per me, c’è un io ipertrofico che ha occupato con i suoi dolenti problemi familiari la forma stessa del narrare».Troppa famiglia nel romanzo italiano di questi anni?«Non si racconta quasi altro, è raro uno sguardo che vada oltre il proprio ombelico».A proposito di famiglia, com’era la tua?«Sono nato a Castano Primo, in Lombardia, e oggi vivo a Robecchetto con Induno. Mi sembra di vivere in un piccolo romanzo di provincia. Mio padre era tappezziere e mia madre lo aiutava. Gente semplice che ho molto amato. Mamma, quinta elementare, è morta un paio di anni fa con un libro tra le mani. Era diventata una buona lettrice. Sono sposato con Giancarla che ha la mia età e abbiamo una figlia disabile che ha 46 anni».Cosa ti ha trasmesso questa situazione?«Un legame fortissimo pur sapendo che il peso maggiore è ricaduto su mia moglie. Il problema è che con l’avanzare dell’età diventa angoscioso sapere che quando noi non ci saremo più lei ci sarà. Purtroppo le strutture sono quelle che sono. È forte la sensazione che la famiglia sia lasciata sola».Come combatti questo vuoto?«C’è un isolamento burocratico, variante manzoniana della burocrazia del male. Come lo combatto?Continuo il mio lavoro nella costanza degli affetti».Nella tua vita hai scritto molto ma in modo frammentario.«È stato un modo per sentirmi più libero. Fare il libro per il libro è uno scopo che non mi sono mai posto. Ora ad esempio sto lavorando con un commento alle poesie di Emilio Praga. Ho sempre tante piccole cose da fare con dei personaggi marginali o dimenticati e sconosciuti. Per me sono questi il sale della scoperta»