il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2024
Storia del souvenir
Magneti e posacenere con stampato il nome dell’eden turistico di turno. Cartoline e globi con la neve, Statue della Libertà e Torri Eiffel portatili. Se amate i viaggi o vi piace viaggiare anche solo con la memoria (il termine deriva dal latino subvenire, “venire in mente”), leggete questo Souvenir, una storia culturale, appena pubblicato in Italia da Il Saggiatore. Ne è autore uno scrittore americano che se ne intende, Rolf Potts.
Premessa: i souvenir contemporanei, venduti nei negozi di oggettistica ad hoc, sono qualcosa di recente. Prima dell’invenzione della vacanza borghese, si partiva per motivi commerciali o andare in guerra. E treni, aerei e navi hanno rivoluzionato il panorama (figuriamoci oggi, con le spedizioni in tempo reale grazie a Internet). Ma perché raccogliamo souvenir, quasi sempre fabbricati in Cina tra l’altro? «Per evocare momenti della nostra vita che ci sono sembrati straordinari. Ma li collezioniamo anche per mettere in dialogo luoghi lontani con la vita che conduciamo a casa. I nostri souvenir fanno parte di una conversazione continua con noi stessi: una sorta di museo del personale, che solo noi possiamo comprendere appieno».
Secondo Potts la loro genesi sarebbe da rintracciare nei pellegrinaggi in Terra Santa, primi secoli dopo Cristo, quando i fedeli prendevano d’assalto Gerusalemme sulla scia delle testimonianze degli apostoli. Alcuni dei souvenir appetiti non davano problemi, «dai calchi a carbone delle iscrizioni tombali alle fiaschette d’acqua del fiume Giordano». Ma spesso si tralignava in situazioni poco edificanti. Come quel pellegrino che, avendo ricevuto il permesso di baciare la vera croce durante un Venerdì santo, «riuscì a staccarne a morsi una scheggia piuttosto voluminosa e a portarla via tenendosela in bocca». Caccia grossa ai feticci evangelici, prodigiosi anche per via indiretta. Mentre in India gli indù in movimento verso i templi di Shiva a Varana «comperavano falli di vetro (linga) in ricordo della visita».
Il fenomeno squisitamente cattolico perdurò più di un millennio, fino al Rinascimento e alla Riforma protestante, incontrando varie fasi e tipologie di contraffazione. E come romanzò giusto un po’ Chaucer nei suoi Racconti di Canterbury, con la scusa dell’anima non pochi pellegrini si erano dati alla pazza gioia, tra estasi carnali e dissolutezze alcoliche. Nemmeno l’età della ragione è stata priva di bizzarrie. Nel 1786, in visita nel borgo natale di Shakespeare (Stratford-upon-Avon), il futuro presidente a stelle e strisce Thomas Jefferson si rese protagonista di un episodio in stile baby-gang. Staccò con un coltellino, nella casa natale del Bardo, un pezzo della sedia che sarebbe appartenuta al drammaturgo più sommo. Un pugno di lacerti lignei a mo’ di reliquia meta-letteraria. Un misfatto analogo a quanto avvenne di lì a breve con le ciocche dei capelli di Milton, il cantore del Paradiso Perduto, dopo la profanazione della sua tomba. Ne contemplò e venerò qualche frammento pure Keats. Lord Byron recise invece un «ricciolo d’oro» dalla femme fatale Lucrezia Borgia.
Il resto è industria, mito, storia, e tralasciamo in questa sede gli anti-souvenir dell’orrore: dalle fortune sottobanco dei boia nell’Inghilterra vittoriana alle spillette e penne a sfera raffiguranti le camere a gas naziste. Capitolo a parte per i souvenir bellici. Nel 2006, su eBay, furoreggiavano le preziosità saccheggiate dai soldati americani nei palazzi di Saddam Hussein: tappeti orientali, Corani in oro, spade cerimoniali, monete antiche. Una deriva per nulla spirituale, che prolifera anche in tempo di pace.
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