Il Messaggero, 29 luglio 2024
Intervista a Harvey Keitel
Se gli ricordi che è un’icona del cinema, Harvey Keitel agita le mani bianchissime e si schermisce con un filo di voce: «Macché, sono solo un ex marine invecchiato». Ex cattivo ragazzo del cinema indipendente americano, a 85 anni l’attore ha girato dei film che hanno lasciato il segno come Mean Streets, Taxi Driver, L’ultima tentazione di Cristo (tutti diretti da Martin Scorsese), I duellanti e Thelma & Louise di Ridley Scott, il cult di Abel Ferrara Il cattivo tenente, Lezioni di Piano di Jane Campion, Le Iene e Pulp Fiction di Quentin Tarantino, Youth – la giovinezza di Paolo Sorrentino. E non ha alcuna intenzione di andare in pensione, ha raccontato al Filming Italy Sardegna Festival organizzato da Tiziana Rocca dove ha ricevuto il premio alla carriera e si è commosso ricordando Paul Auster, lo scrittore suo amico recentemente scomparso. Negli ultimi mesi Harvey ha girato ben undici film, tra cui Milarepa di Louis Nero, ambientato in Italia e presto in sala. Intanto, il primo agosto, uscirà Paradox Effect, un thriller con la regia di Scott Weintrob: l’attore, sempre efficace nei ruoli di criminale come lo sfruttatore della baby prostituta Jodie Foster in Taxi Driver o il “fixer” Mister Wolf che in Pulp Fiction «risolve problemi», interpreta un boss che commissiona un omicidio di cui è testimone per caso la tossicodipendente Olga Kurylenko.
Cosa le dà la forza di lavorare ancora tanto?
«La voglia di imparare, scoprire, capire. Da giovane feci parte per tre anni del corpo dei marine, un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Poi sono diventato attore per conoscere me stesso e gli altri. E non ho ancora finito».
Sente di aver fatto tutto o le restano dei conti in sospeso, dei rimpianti?
«Macché rimpianti, il bilancio è più che positivo. Sono stato fortunato, ho lavorato con grandissimi registi».
Quale l’ha capita di più?
«Abel Ferrara, che nel 1992 mi ha diretto in Il cattivo tenente. Ci siamo incontrati quando lui aveva bisogno di me e io di lui. Abbiamo lavorato insieme alla sceneggiatura del film scritto inizialmente da Zoë Lund, una donna bella e intelligente morta giovane a causa dell’eroina».
Oggi si potrebbe girare un film così audace?
«Non lo so. Io ho sempre lavorato all’insegna del coraggio e della libertà. Non conosco un altro cinema».
Come andò con Tarantino?
«Al primo incontro, lui bussa alla mia porta e quando io apro pronuncia male il mio nome. “Entra lo stesso”, gli dico. Il copione di Pulp Fiction mi aveva dato la stessa vertigine provata per Lezioni di piano».
Girerebbe il sequel di “Pulp Fiction”?
«Sì. Con il mio ragazzo Quentin farei qualunque cosa».
Anche nella vita, come Mr. Wolf, lei risolve problemi?
«Quando mai. Nelle situazioni difficili sono un disastro».
Perché ha accettato di girare “Milarepa”?
«Louis Nero affronta temi importanti, specie in questo momento storico dominato da paura e violenza: il senso del nostro stare al mondo, la morte, le scelte. Io interpreto Buddha e all’inizio del film mi confronto con una bambina che m’interroga sulla vita».
Che pensa dei registi italiani?
«A differenza degli americani, vogliono sempre spiegare agli attori cosa fare. Ma io, che sono cresciuto a Brooklyn, gli italiani li conosco da sempre».
Ricorda il primo incontro con Scorsese?
«Era il 1966. Lui studiava cinema, io per campare vendevo scarpe. Andai al provino per Chi sta bussando alla mia porta? e di 50 rimanemmo in tre. C’era un tizio che continuava a ordinarmi “siediti”, io gli urlavo “chi ca...sei?” ed ero sul punto di mollargli un pugno quando Martin entrò e mi spiegò che si trattava di una prova di improvvisazione. E io: “Ma vaffan...”. Ebbi la parte, il resto lo sapete».
Cosa ricorda degli anni dell’Actors Studio?
«Eravamo ossessionati dalla recitazione. Stavamo in piedi fino all’alba per trovare un solo momento di verità».
È questo il senso del suo lavoro?
«Non l’ho ancora capito. Se lo scopro glielo faccio sapere».