La Stampa, 29 luglio 2024
I cent’anni di Goti Bauer, la sopravvissuta che considera Auschwitz casa
Goti Bauer, mite e inflessibile testimone di Auschwitz-Birkenau, compie cento anni. «Il mio Virgilio», la ha spesso definita Liliana Segre, perché era stata lei a convincerla, già sessantenne, a rientrare nel buio feroce della memoria, a intraprendere l’iter per mortuos, il viaggio nell’aldilà di Auschwitz. Un luogo popolato di ricordi inavvicinabili, prima ancora che di dolore e umiliazione: l’eliminazione della propria famiglia e delle compagne, la consapevolezza indelebile della riduzione dei corpi a materia: capelli, denti, cenere, frammenti d’ossa spalati dai crematori. Goti Bauer ha continuato per tutta la vita a ripetere nella propria mente le stesse impossibili scene, sapendo di essere il solo luogo dove custodire la memoria degli scomparsi, farsene pietra sepolcrale. Ma in pubblico, nella fermezza di testimoniare senza posa l’inaudito, si è fatta luogo politico del giudizio. Fino a quando l’età glielo ha permesso, il suo è stato un attraversamento del XII canto dell’Inferno, una guida inesausta del Flegetonte in cui Dante ha immerso nel sangue ribollente i tiranni e i violenti contro il prossimo. Non ha mai smesso di interrogarsi su come si sia costruito, poco per volta – nei tradimenti dei vicini di casa, nei guadagni dei “passatori”, nell’indifferenza dei contadini che vedevano i vagoni andare carichi e tornare vuoti, nella costruzione della burocrazia che diresse la deportazione e lo sterminio, nell’abisso di chi nei campi, con razionalità da macello, creò e mantenne le condizioni dell’annichilimento – di indagare le colpe dei carnefici, né di cercare ogni più piccolo appiglio di umanità nella “zona grigia”, per salvare un brandello di quell’umano che le era indispensabile e per il quale si è imposta la testimonianza.Così come, affermava Gregory Bateson, non si può dire a qualcuno «gioca!», non si può dire a qualcuno «ricorda». La memoria non può essere un dovere, un obbligo: è scelta etica, passione politica, e in Goti lo è stata al più alto grado. Ogni volta che ho preso il tè con i kipferl ungheresi fatti da lei nel grande salone della sua casa piena di fotografie di chi non c’è più, ho sentito che non eravamo mai sole, che entravo in un dialogo solo momentaneamente interrotto con un mondo ricchissimo e doloroso, un’isola benedettina dove tutto veniva continuamente trascritto per essere salvato. Il suo scrittoio e ogni mobile erano colmi di testi, libri, testimonianze in diverse lingue, volti incorniciati, fiori. Con loro, con i suoi cari scomparsi – il padre, la madre e il fratello, che vivevano con lei a Fiume, le più di quaranta persone della famiglia d’origine deportate dalla Slovacchia, le amicizie strette dopo il lager con chi poteva davvero sapere ma era ormai scivolato via dalla vita o dalla consapevolezza – si era sempre più ritirata nella sua casa-santuario. «Adesso, in vecchiaia», mi disse qualche anno fa, «e in particolare da quando sono rimasta sola, perché purtroppo mio marito non c’è più e i miei, come è giusto, hanno una loro vita, il mio ricordo e il mio pensiero si rivolgono lì con una frequenza che non posso nemmeno descrivere. Questo mi procura delle sofferenze che prima non avevo, perché non mi ponevo certe domande, o, almeno, non con questa precisione. Negli ultimi anni, la cosa che mi domando più spesso è: cosa avrà pensato mia mamma, in quella camera a gas? Ma che cosa avrà pensato? Mi interrogo soprattutto su di lei, perché mio papà era già talmente malato che sicuramente non ha avuto neanche l’occasione di farsi domande. Mi torna in mente sempre, e rappresenta una pena supplementare: chissà che cosa avrà pensato. E, così, un’infinità di altre cose».Goti ha voluto farsi testimone, fino a quando le forze l’hanno sorretta, della specifica morte industriale, categoriale, in cui era stata immersa come in una distopia, prigioniera nella baracca 27, di fronte al crematorio. «Durante l’appello o mentre, in squadra, tornavamo dal lavoro forzato, vedevamo scaricare i bambini, i bambini che cercavano la mamma, e le file che si incamminavano verso la camera a gas. Essere lì e non poter fare nemmeno un gesto per avvertirli, per aiutarli, è indescrivibile: li vedevamo, e sapevamo che entro un paio d’ore non ci sarebbero stati più. Quella è stata la sofferenza più grande, che non si può cancellare. Che ci peserà sull’animo finché avremo vita».La memoria è stata la religione di Goti, in una costante lotta interiore per non perdere la fede che testimoniare avesse un senso. Dapprima il negazionismo, poi la querelle storiografica sull’affidabilità delle fonti orali, infine quello che Imre Kertész, sopravvissuto di Auschwitz e Premio Nobel per la letteratura, chiamò il “kitsch dell’Olocausto": un intrattenimento, un turismo di massa, un consumismo privo di profondità che situava Auschwitz in un altrove metafisico anziché nel mondo degli uomini. Ma il testimone, con la sua sola presenza – questa la grande lezione di Goti Bauer – è un monito, un segno disturbante di quanto sia facile essere ridotti al nulla dal volgersi in potere totalitario di quello stesso ordine borghese che ci consente di condurre le nostre esistenze quiete e immemori.Un’espressione che le ho sentito usare spesso – con la sua dolce cadenza fiumana, con la sua voce rauca e sorridente che pareva sempre offrire una carezza all’interlocutore – è «mi commuove». La commuoveva ogni bambino, ogni vecchio, ogni persona di cui poteva immaginare una sofferenza. La commuoveva un piccolo gesto di gentilezza. La commuoveva la figura dell’altro, del quale immaginava sempre il meglio, che giustificava fino all’ultimo, che cercava di capire con infinita capacità di empatia. «Goti emana ed emanava intorno a sé un’aura di un’umanità così profonda, così eccezionale, che chi ha avuto la fortuna di averla compagna di prigionia è stata meno prigioniera, perché sicuramente avrà sparso la sua capacità di amore alle altre prigioniere», mi disse Liliana Segre rievocando il tempo in cui, tredicenne, era sola nel campo. «Non solo non ho trovato nessuna che mi dicesse povera te – e non era una cosa da poco sentirselo dire – ma io stessa non dicevo a nessuna povera te. Goti invece è una persona assolutamente eccezionale; che la si incontri in cima al Monte Bianco o all’inferno – com’era quello – lei è un dono».Un riguardo così estremo a non fare del male, anche nella sua vita di testimone, da non voler dire il nome di chi le aveva venduto un passaporto falso per guadagno, di chi l’aveva condotta dai passatori, di chi aveva portato via i mobili della sua casa assegnata ad altri, per timore di ferire i discendenti, che non avevano colpa. Così schiva da aver tenuto quasi segreta la nomina a Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana – il più alto degli Ordini della Repubblica – ricevuto nel 2003 di iniziativa dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Perché non gli onori o i riconoscimenti hanno distolto Goti Bauer dagli scomparsi; solo lo sguardo partecipe, commosso, turbato, di una ragazza o di un ragazzo fra le migliaia di studenti che ha incontrato. Per poi tornare alle figure di un altro Canto da lei profondamente amato, il Canto del popolo yiddish messo a morte, che il poeta polacco Itzhak Katzenelson compose nel 1943 e sigillò in alcune bottiglie che seppellì in un giardino poco prima di essere deportato ad Auschwitz con l’unico figlio ancora in vita. «Venite tutti, da Treblinka, da Sobibor, da Auschwitz, venite da Belzec, da Ponary e dagli altri campi, con gli occhi sbarrati e mute grida di terrore. Venite dalle paludi, affogati nel fango, imputriditi nel muschio. Venite, voi disseccati, voi macinati, voi frantumati, disponetevi in cerchio intorno a me fino a formare un grande anello: nonni, nonne, padri, madri con i bambini in collo».Grazie, Goti Bauer, dal profondo, nel centesimo anno di un’esistenza miracolosa. —