la Repubblica, 29 luglio 2024
Intervista a Luigi Farrauto, l’autore di Lonely Planet che ha paura di viaggiare
È un viaggiatore. È un autore di guide di viaggio. Ha vissuto a Porto, Amsterdam, Boston e Doha. Di mestiere disegna mappe. Eppure Luigi Farrauto è quanto di più lontano possa esserci da Robinson Crusoe. Di lui colpiscono due cose: non ha senso dell’orientamento («ho un talento nel perdermi») e ha paura di tutto («dei cani, come dei serpenti»).
Lei fa uno dei lavori più invidiati da millennial e boomer. Una vita spericolata?
«Da oltre dieci anni sono un autore delle guide di viaggio Lonely Planet, ne ho scritte una quindicina, tra cui quella di Milano, del Libano, dell’Albania. Tutti mi immaginano come un avventuriero, ma si sbagliano».
In che senso?
«Sono un “viaggiatore pavido”, come scrivo nel mio romanzo. Ho una collezione importante di fobie e paure: temo la morte, il mare aperto, le salite, il sangue, gli insetti. Mi terrorizzano persino i cani e le montagne».
Come ci convive?
«Il viaggio rappresenta la mia terapia d’urto. Mi metto in situazioni che mi costringono a scontrarmici».
Ha mai pensato “sta volta non ce la faccio”?
«Sì, in Bolivia ad esempio. La Carretera de la muerte è la strada più pericolosa al mondo: ogni anno fa più di 200 morti. Forte della mia esperienza in Pianura Padana, mi sono detto: se la percorressi in bici? Così, dopo aver scattato una foto, che avrebbe potuto essere il mio ultimo ritratto, bevuto un beverone (che poi era grappa pura), insieme agli altri temerari abbiamo ripetuto “Pachamama Pachamama!”, ma io ho aggiungo “Sorry, mama” e siamo partiti. È stato come condensare un anno di psicoterapia in cinque folli ore di discesa».
Non era meglio un viaggio a Ibiza?
«I miei genitori me lo hanno domandato spesso. Poi però le ultime parole che mia madre ha pronunciato sono state: “Fai buon viaggio”. Era la prima volta. Di solito mi salutava con “Chiama-Scrivi-Mangia-Facci sapere-Stai attento”. Forse all’inizio non capivano…».
Cosa?
«Che quando sono via è tutto diverso. Immerso nei taccuini, nei biglietti aerei, nelle fotografie io sto bene. Lo spazio-tempo che separa la partenza dal ritorno è perfezione, idillio, non contiene sofferenza, dolore né preoccupazioni. Il viaggio è un’anestesia totale. Se non fosse che…».
Che?
«Che non ho senso dell’orientamento e mi perdo ovunque: nei supermercati, nei musei, negli ospedali. Anche nei bagni dell’Autogrill».
Come fa col suo lavoro?
«Da mappe e segnaletiche dipende la mia sopravvivenza. Forse è per questo che ne ho fatto una professione. Attraverso la mia società, 100km studio, sviluppo progetti per aeroporti, musei, fondazioni: ho curato quelle dell’aeroporto di Doha (Qatar), di Expo Milano 2015, i totem turistici del centro storico di Roma. Sono cintura nera nel riconoscere quando i cartelli o le mappe sono fatte male perché ti fanno perdere. E perdersi è brutto. Mi è successo alla medina di Fes, in Marocco: un’esperienza traumatica».
Lei è stato un bambino curioso?
«Quando avevo dieci anni sfogliavo l’atlante come se ogni tavola fosse l’episodio di una serie. Sottolineavo con la matita i luoghi dai nomi più avvincenti che un giorno avrei visitato».
Be’, c’è riuscito. Dove vorrebbe vivere?
«Sono contento quando torno a casa, a Milano: qui c’è la mia famiglia Queer e il mio gatto, Baghdad».
Ha mai pensato “mollo tutto e non torno più”?
«Il viaggio ha bisogno di un ritorno. Chi parte, e poi non torna, sta fuggendo».
Dopo tanti km, cosa le è rimasto addosso?
«In viaggio ho imparato a sorridere: all’empatia non è dato sottrarsi».