il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2024
Intervista a Martin Barre
“Wight 1970? Una frenesia irrefrenabile per mezzo milione di ragazzi. Un magnifico caos in un’isola piena di elettricità umana. I Festival erano e sono ancora così: se giri nel backstage ti imbatti in tanti musicisti che conosci e stimi. Poi di colpo ti chiamano sul palco, ci dai dentro per un’ora e quando scendi pensi: già finito? Ma come diavolo sarà andata? Ho sbagliato le note? Un minuto dopo non ricordi più nulla”.
Caro Martin Barre, era l’ultimo giorno di quello storico Wight. Ricorda chi si esibì dopo voi Jethro Tull?
Hendrix. Morì di lì a qualche giorno. Con me Jimi era sempre gentile, umile. Mi incoraggiava.
I grandi chitarristi parlano la stessa lingua.
Chi ha vero talento non ha motivi per spacciare inutilmente il proprio ego. Jimmy Page era amabile, Leslie West dei Mountain un amico.
A Wight chissà quante ne combinaste, voi Tull, in quella settimana dove ti mischiavi con i Doors, Joni Mitchell, Leonard Cohen, Miles Davis. Ian fece leggenda suonando l’armonica su una gamba sola.
Macché. Giravamo nei camerini per parlare di musica. Niente sesso, droga e r’n’r. Un tè, un cappuccino, due chiacchiere e via a nanna.
Lei era entrato nella band l’anno prima, dopo l’addio di Mick Abrahams. Nel mezzo c’era stata l’idea di tirar dentro Toni Iommi, che avrebbe invece optato per i Black Sabbath.
Ian frequentava Toni. Lo chiamò perché, in quel breve periodo in cui i primi Jethro Tull erano rimasti senza chitarrista, gli desse una mano. C’era da onorare l’invito dei Rolling Stones per il loro speciale tv.
Il Rock’n’Roll Circus, dicembre ‘68.
Lì Iommi non suonava dal vivo, il gruppo andava in playback tranne Anderson. Dopo quei venti minuti di performance, decise che i Tull non facevano per lui. Il lavoro non gli piaceva.
E fu ingaggiato lei.
Ian aveva una short list di candidati: il primo era Toni Iommi, il secondo io, il terzo Mick Taylor, che anni dopo diventò uno degli Stones.
Taylor era stato, giovanissimo, tra gli assi svezzati dallo stregone del blues John Mayall, morto giorni fa novantenne.
John, altra persona squisita. Senza di lui non avremmo mai conosciuto il genio di Peter Green e forse Clapton avrebbe fatto un percorso diverso. Mayall era sovrastato dalla magnificenza dei chitarristi che scopriva. Alla fine decise di farne a meno. Per impugnare lui stesso la sei corde.
Lei, Martin, è stato l’architetto del suono dei Jethro Tull, nella stagione d’oro. Entrò nel ‘69, uscì nel 2011.
Non per mia volontà. Sono un combattente, mai arrendersi.
Come andò?
Ian Anderson mi fece sapere che voleva mettere un punto alla storia della band. Mi assicurò che neppure lui avrebbe continuato con il marchio. Finita, stop. I fatti hanno smentito le sue parole.
Ci restò male.
Nessuno venne in mio soccorso. Discografici, manager, agenzie. Zero. Capii che non potevo farmi risucchiare nel nulla: dovevo andare oltre, lo faccio ancora oggi.
I Jethro Tull sono morti?
Non parlo con Ian da 13 anni. Gli devo riconoscenza per quello che abbiamo fatto insieme nell’arco del tempo. Eravamo due cuochi che preparavano una torta dal sapore unico, con i nostri compagni che aggiungevano ingredienti deliziosi.
Però…
Però lui oggi continua a tenere in vita artificialmente il brand Jethro Tull, senza consegnarlo al posto che merita nella storia del rock. Gira con musicisti diversi dai vecchi compagni, è rimasto l’unico membro originario. Il suono è ormai troppo diluito per essere credibile. Io non ascolto nulla di quello che propone Ian. Cerco di tenere alto il vessillo della nostra epopea. Con la Martin Barre Band suoniamo dal vivo quegli album e siamo i migliori del mondo in questo, ma non fingiamo di essere i Jethro Tull.
Stasera sarete a Sigillo, in provincia di Perugia, per Suoni Controvento, il Festival a impatto zero. Titolo del concerto: “A brief history of Tull”.
Amo l’Italia, domani saremo a Livorno, dove capitai nel ‘67 prima dei Jethro, con i Motivation. Vivevamo a Roma, ci esibimmo per mesi al Piper.
Tra lei e Anderson funzionava l’attrazione degli opposti. Ma avevate in comune il flauto.
Io prendevo lezioni da un musicista classico, sapevo dove mettere le dita. Ian sbagliava tutte le posizioni.
Anderson ci disse che si era dedicato al flauto perché il posto da chitarrista era occupato.
Vedeva tutti questi mostri in giro, Hendrix, Clapton, Green, non sopportava l’idea di non essere bravo come loro. Nel flauto poteva essere il numero uno. Anzi, l’unico.
Sostenne che a convincerlo fosse stata sua figlia, che suonava il flauto a scuola.
Gael non era neppure nata. Semmai, quando era piccola, gli suggerì come mettere correttamente le dita sui buchi. Io non avrei potuto farlo.
Martin, una vita votata solo alla musica?
Corro, navigo a vela. E gioco a tennis con un maestro, due volte a settimana. Mi piacciono Berrettini e Alcaraz. Il migliore è stato Federer. I movimenti di una star del balletto, un rovescio di poetica bellezza.