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 2024  luglio 28 Domenica calendario

Intervista a Riccardo Muti

«Avevamo una dimestichezza con la morte fin da piccoli, quando ogni sera, per farci addormentare, le mamme o le nonne ci dicevano di sbrigarci, ché alle otto Lei sarebbe passata a prendersi tutti i bambini ancora svegli. Mia madre, che era napoletanissima, ogni volta che avvertiva un brivido di freddo esclamava: m’è passata ‘a morte ncopp’o cuollo. Alla fine del Carnevale, alla mezzanotte, al suono della campana che annunciava l’inizio della Quaresima, dalla Chiesa di Santo Stefano a Molfetta usciva un gruppo di uomini incappucciati, membri della Congrega della Morte, che portavano in processione per il paese un crocefisso di legno con il volto di Gesù dipinto all’incrocio dei due bracci. Le prime musiche che ho ascoltato sono state la Marcia Funebre dell’Eroica di Beethoven e lo Stabat Mater di Rossini, suonate dalla banda di Molfetta durante le processioni del Venerdì Santo, o per i funerali di qualche parente abbastanza benestante per potersela pagare. Oggi alle cerimonie funebri si applaude il defunto, si infastidisce la morte con il frastuono della nostra società, invece di rispettarla con il silenzio. Ho detto ai miei figli: se qualcuno si azzarderà ad applaudire ai miei funerali, sappia che il mio spirito andrà ogni notte a fargli visita nel sonno».
 
Riccardo Muti è un fiume in piena. Ho tentato, per pudore e forse anche per rispetto a quel minimo di distacco scaramantico con cui noi napoletani approcciamo di solito il tema, di prenderla alla larga, cominciando dalla teoria. Gli dico di aver letto che la musica è «l’arte della morte» perché, a differenza di ogni altra forma di espressione, dipende dal tempo, e come la vita ha una sua durata, nasce dal silenzio e muore nel silenzio. Lui ascolta, annuisce; ma il suo rapporto con l’oggetto della nostra conversazione, da napoletano-molfettese, è così intenso e personale che prevale subito sulle mie elucubrazioni: parla con disincanto della morte, come un uomo di un tempo in cui non era ancora diventata un tabù, parola impronunciabile, evento da nascondere dietro un paravento, abisso di solitudine strappato alla condivisione della comunità.
 
«Quando avevo undici, dodici anni, andavo dietro alla banda nelle processioni. Nella Marcia Funebre dell’Eroica — e qui comincia a canticchiarla, ndr — quel rullo di tamburi e quel suono di strumenti gravi sembrava proprio accompagnare e aiutare l’incedere della cassa mortuaria. Sono stati certamente dei funerali a ispirare Beethoven. Allo stesso modo io devo all’idea di morte una parte importante della mia educazione. Al Meridione la morte viveva, era intorno a noi, sempre con noi. Nella chiesa di Molfetta dove ha sede l’Arciconfraternita della Morte dal Sacco Nero, fondata nel XVII secolo da trentotto galantuomini che intendevano dare sepoltura cristiana ai poveri che non potevano permettersela, i monaci fecero apporre nel 1640 una scritta sulla parete. Dice: “HOC FRATRUM COETUS MORTI POSUERE SACELLUM, UT LIBITINA SUAS TOLLAT AMICA FACES”. E cioè: il ceto dei frati pose questo sacello in onore della morte, affinché Libitina possa sollevare le sue fiaccole amichevolmente. E Libitina, attenzione, è la Dea della morte nella Roma arcaica, la divinità che presiedeva ai funerali. Si rende conto? Dei monaci che evocano una entità pagana… Una volta ho chiesto al mio amico cardinal Ravasi se quel nome, Libitina, venga da libido, o viceversa. In fin dei conti c’è un nesso tra le due cose, la morte e l’orgasmo. Non a caso quest’ultimo è definito la “piccola morte”».
 
La formazione religiosa è un grande filtro dei ricordi e delle emozioni del Maestro. «Vengo da una famiglia cattolica. Mio padre era medico, si prendeva cura senza richiedere compenso dei preti nel Seminario Pontificio di Molfetta e dei monaci che vivevano nei monasteri della zona. Il mio debutto musicale, a dieci anni col violino, avvenne proprio nel Seminario. A 13 anni feci un po’ scandalo nella Basilica della Madonna dei Martiri, perché salii all’organo e suonai il Brindisi della Traviata. Ma erano altri tempi. Ora i preti e i frati portano i calzoni invece della tunica e indossano quelle che in America chiamano le “naiki”, forse senza sapere che la parola Nike è greca, il nome della Vittoria».
Ciò nonostante, Muti non crede nell’Aldilà?
«Non si può dire: ci credo o non ci credo. È un mistero della fede. Diciamo che non penso che ci ritroveremo tutti insieme ben vestiti in un altro mondo. Ma credo fermamente che il nostro spirito sia parte di un’energia cosmica e che ad essa tornerà. La “comunione dei santi”, secondo me, è proprio l’insieme delle energie spirituali di tutto il mondo. La forza vitale che ci anima, che è in ognuno di noi, non può svanire, non si dissolve nel nulla. Le faccio un esempio: quando sono morti mia madre e mio padre, fino a un secondo prima il loro corpo aveva una certa levità, una morbidezza, una flessibilità, poi un attimo dopo era rigido e pesante come un blocco di marmo. Perché? Perché l’energia che ci tiene vivi e dona leggerezza al nostro corpo se n’era andata. Dove? Da qualche altra parte. È del resto la stessa energia che esprimiamo nella musica. Quando dirigo, non evoco con il movimento delle braccia una forza fisica, anche se molti direttori si sbracciano, gesticolano, in ossequio a un pubblico che oggi chiede più di vedere che di ascoltare, più lo show che la musica. Per me invece la direzione è emanazione di un’energia interiore. In America dicono, con un’espressione che non mi piace perché paragona l’uomo a una macchina, che una persona energica è una “dynamo”. Ecco, potremmo dire che quando uno muore finisce la dinamo».
Ma questo spirito immortale può rivivere in altri esseri viventi, dopo la nostra morte?
«Oddio, spero davvero di no, sono terrorizzato dall’idea della metempsicosi. Non vorrei che la mia energia si trasferisse in un topo, o peggio ancora. Credo però che si ricongiungerà a tutte le altre».
In occasione dei suoi ottant’anni, in un’intervista con Aldo Cazzullo sul Corriere, Riccardo Muti disse: «Sono stanco di vivere». E molti l’interpretarono come un desiderio di morte. A me apparve piuttosto un severo giudizio sulla qualità della vita nel nostro tempo.
«Era uno sfogo, infatti. Qualcuno avrà magari brindato all’idea che mi togliessi di torno, ma in realtà volevo dire che non mi riconosco più in un mondo che è cambiato troppo per i miei gusti, perché sta distruggendo quell’humanitas che i nostri maestri ci hanno insegnato da ragazzi. Ho letto di recente che in Germania qualcuno propone di modificare perfino i libretti di opera, per renderli politicamente corretti. Lei capisce? Per non arrecare nocumento ai pargoli, vogliono correggere il Flauto Magico che fu scritto per i bambini. Nella Turandot propongono di cambiare i nomi di Ping, Pong e Pang per non offendere gli ascoltatori di etnia cinese. E a Toronto l’hanno fatto davvero, sono diventati Jim, Bob e Bill. Mio nonno diceva che non voleva diventare un laudator temporis acti, e neanch’io, però insomma, qui si esagera. Sempre lui, mio nonno, mi raccontava che un onorevole delle sue parti, per ottenere l’Acquedotto delle Puglie, cominciò così il suo discorso in Parlamento: “Vengo dalla Puglia sitibonda di acqua e di giustizia…”. Lei conosce per caso un onorevole dei nostri giorni capace di un tale incipit? Anche la lingua italiana si sta assottigliando, soffocata dal ricorso eccessivo e futile a un inglese posticcio, capito male e pronunciato peggio. In tv ho sentito ripetere decine di volte: “E ora, la puntata settimanale di Rèport…”. Ma lo sanno che si dice Repòrt?”.
Chiedo al Maestro quali siano i brani musicali per lui indispensabili in una colonna sonora ideale della morte. 
«Le Messe da Requiem di Cherubini, la prima in do minore, scritta nel pieno della Restaurazione per celebrare nella basilica di Saint-Denis a Parigi il ritorno delle spoglie dei reali decapitati. E quella in re minore, scritta per sé stesso abolendo le voci femminili e i violini al fine di depurarne la gravità da ogni suono leggero, angelico, acuto, e stenderle sopra un manto nero. E poi Le ultime sette parole di Cristo sulla Croce, di Franz Joseph Haydn, una delle più grandi creazioni musicali di tutti i tempi, in cui risuona quell’ultima frase solenne, “Consummatum est”, tutto è compiuto. E naturalmente i Requiem di Verdi e di Mozart. E la Missa defunctorum del nostro Paisiello, e la Grande messa dei morti di Berlioz.
Musiche lugubri, scure, ma tutte hanno in comune una cosa: al momento del “Benedictus qui venit in nomine Domini” anche il compositore più tragico ha un colpo d’ala. Anche nella messa funebre più nera, il Benedictus indica una fonte di luce capace di irradiarsi sulla stessa morte. Nel finale del Requiem di Verdi, scritto per la morte di Alessandro Manzoni, per tre volte il soprano invoca “Libera me domine de morte aeterna”. Prima lo urla, quasi rinfacciasse a Dio la responsabilità della fine: poi lo sussurra, come implorando. E musicalmente non si capisce se quel sussurro esprima anche un dubbio sulla possibilità che davvero esista un altro tempo. Nei compositori italiani è più frequente questa nota tragica, questa rivendicazione: mi hai creato, allora liberami dalla morte. Nei compositori tedeschi, penso per esempio a Brahms, il Requiem è più che altro una forma di consolazione per i vivi».
Approfittando della nostra comune provenienza, di quando in quando il Maestro mi si rivolge in dialetto partenopeo. Va evidentemente fiero della sua origine. 
«La devo a mia madre. Col matrimonio si era trasferita a Molfetta, dove lavorava mio padre. Poco prima del parto però (ha avuto cinque figli), se ne tornava sempre a Napoli. Io stesso sono nato lì, e poi riportato dopo quindici giorni in Puglia. Noi figli le chiedemmo una spiegazione. “Non si sa mai”, ci disse, “metti che da grandi dovete girare il mondo, se vi chiedono di dove siete e rispondete Molfetta ci vuole mezz’ora per dire dov’è; se invece dite Napoli, vi rispettano”. Ed è così, aveva ragione, ci rispettano, soprattutto nella musica. Le capitali nel Settecento erano Napoli, Madrid, Parigi, Londra, Vienna e San Pietroburgo. Ma i musicisti napoletani hanno dominato l’Europa: Salieri a Vienna, Cimarosa e Paisiello a San Pietroburgo, Mercadante a Madrid. Hanno unificato il continente ben prima dell’euro. La musica ha fatto l’Europa e l’ha resa un unicum nel mondo. Del San Carlo, inaugurato circa quarant’anni prima della Scala, sono stati direttori Rossini e Donizetti, Paganini e Bellini ne hanno calcato le scene. Purtroppo a Napoli stiamo ancora aspettando una classe dirigente illuminata che sappia mettere a frutto un tale tesoro culturale. Ho diretto per cinque stagioni il Festival di Pentecoste a Salisburgo, e un anno portammo l’Oratorio di Scarlatti, un genio che ha preceduto di venticinque anni Bach. A quel tempo la tv austriaca mostrava di continuo le scene della crisi dell’immondizia a Napoli. La sera della rappresentazione, uscendo dalla chiesa, il sovrintendente Canessa che ci aveva accompagnato mi avvicinò e mi disse: “Ora avranno capito che sotto la monnezza noi abbiamo tanta bellezza!”. Le racconto un episodio che dice tutto dell’arguzia dei napoletani. Nel 1968 facevo al San Carlo le prove della Sinfonia di Richard Strauss dedicata all’Italia. È composta di quattro movimenti, gli ultimi due ambientati a Napoli. Il terzo è intitolato Sulla spiaggia di Sorrento, il quarto ha un ritmo di tarantella in cui echeggiano le note di Funiculì funiculà. Ingenuamente chiesi agli orchestrali se avessero capito i titoli della partitura, che erano in tedesco (Am Strande von Sorrent), e una voce mi rispose: “Maestro, noi nun sapimm’ o’ francese”. Feci finta di non aver inteso il sarcasmo e tradussi comunque. E la voce: “Maestro, e quando mai c’è stata ’na spiaggia a Surriento?” Rimasi fulminato: era vero, stavo per cominciare una lunga concertazione basata su una menzogna. La mia faccia dovette tradire così tanto il mio sconcerto che la stessa voce, per confortarmi, aggiunse: “Vabbuò, forse na’ vota ci stava la spiaggia!”. Questo spirito, quest’ intelligenza, che possono essere straordinari nel bene e pericolosi nel male, reclamano guide capaci. E non è facile».
Chiedo a Muti che cosa intendesse dire a Verona, quando ha pronunciato davanti a Mattarella, a Meloni e le alte cariche dello Stato quello che è ormai noto come “l’apologo dell’impedimento”.
«L’hanno interpretato come un discorso politico, ma io avverto da anni che dal podio non si deve far politica, già la scelta del programma è di per sé un gesto politico, non serve aggiungere niente. Ma società e orchestra – questo intendevo dire – sono davvero simili. Linee diverse si intersecano tra loro, e da queste il direttore deve trarre una suprema armonia, così come il governante deve fare per il bene comune. E l’unico modo è cogliere la necessità interpretativa attraverso il coinvolgimento e il convincimento dell’orchestra, non per imposizione. Se non è in grado di farlo e disturba invece questo delicato processo, allora l’impedimento alla musica è il direttore d’orchestra. Succede, sa? Il primo violino della Philadelphia Orchestra, una delle migliori del mondo, una volta affrontò un direttore dicendogli: “Maestro, se non la smette di chiedere cose senza senso, noi poi cominciamo a suonare come lei desidera…”. Era una minaccia. Ma vale in tutti i campi; chi è al vertice di una qualsiasi istituzione può anche nuocerle. Il podio appare spesso come un luogo di potere, il direttore è posto in alto, comanda a bacchetta. Ma per me il podio è un luogo di solitudine: hai di fronte cento o più orchestrali che dipendono dalla tua interpretazione, e devi trasmetterla a mille o più persone alle tue spalle».
La conversazione è alla fine. Muti deve tornare allo studio delle partiture. Mi chiede quando sarà pubblicata l’intervista. Gli racconto i tempi del settimanale. Conclude con scaramantica arguzia partenopea: «Vabbè, se non muoio prima la leggerò. Consideri che sulla targa degli alunni illustri esposta nell’atrio del Vittorio Emanuele II, il liceo dove ho studiato a Napoli, credo di essere rimasto l’unico ancora vivo…».