Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  luglio 27 Sabato calendario

lo sport non conosce confini

Venne, vide, disse: «Le olimpiadi di Milano e Cortina devono essere Olimpiadi italiane e la pista di Bob, rispettando costi e tempi, deve essere a Cortina». Punto. Così decise, mesi fa, Matteo Salvini. Non «preferiremmo», «sarebbe opportuno» o «se possibile»... No: basta coi dubbi degli ambientalisti, del Comitato Organizzatore, del Cio, della Corte dei Conti, delle opposizioni, degli enti locali, dei cittadini bellunesi e così via: «devono essere olimpiadi italiane» e il bob «deve essere a Cortina». Era così e basta. A costo di affidare i lavori da progettare, avviare e finire in tempi strettissimi, con una commessa data sostanzialmente senza gara (dopo più gare andate a vuoto) all’unica impresa ritenuta in grado di fare il prodigio, la Pizzarotti (con operai norvegesi abituati a lavorare al polo) a una cifra stratosferica e col ribasso più risibile della storia degli appalti planetari: lo 0,013%. Il tutto per un esborso complessivo, tra una cosa e l’altra, valutato ufficialmente dal ministro Giancarlo Giorgetti, l’8 febbraio di quest’anno alla Camera, in 118 milioni e 424 mila euro. Almeno 8 in più dei già esorbitanti 110 milioni spesi nel 2006, Olimpiadi di Torino, per la pista da bob di Cesana mai più usata, manco una volta, dopo la fine dei Giochi. Ammesso che bastino e non nevichi troppo, che i norvegesi non becchino il raffreddore, che la pioggia non ostacoli le cementificazioni, che splenda sui monti bellunesi un accecante sole amalfitano... Auguri.
E mentre a Cortina corrono come pazzi per finire i lavori nei 231 giorni che mancano al 15 marzo 2025, dead line fissata per consentire i test necessari all’omologazione della pista (sennò il bob va da altre parti), la Francia che deve organizzare le Olimpiadi invernali successive a quelle ampezzane nel 2030, cioè fra sei anni (anche Cortina di anni ne ebbe 6 per prepararsi: buttati via in infiniti tira e molla!) ha deciso di non rischiare. E ha chiesto a Torino, ricevendo l’ovvio okey del sindaco Stefano Lo Russo e del governatore Alberto Cirio, tagliati fuori dai giochi nostri, di usare per il pattinaggio di velocità (basterà ripristinare l’impianto per il ghiaccio, la pista e le tribune: sei mesi di cantieri previsti) la struttura dell’Oval di Torino che già ospitò le Olimpiadi 2006. Quella che promotori e organizzatori di «Milano-Cortina 2026» scartarono preferendo costruire ex novo una pista di pattinaggio a Rho-Fiera.
Scelte. Il tutto nel contesto di cambiamenti epocali dopo la catena di rovesci economici registrati dai grandi eventi sportivi planetari diventati via via così costosi da essere insostenibili.
Si pensi alle Olimpiadi. Male Atene 2004, che costò 11 miliardi di dollari e per il Daily Mail vide 21 su 22 siti olimpici nuovi «inutilizzati dopo appena tre settimane dalla fine delle gare». Male Londra 2012 che secondo playthegame.org pesò per 15 miliardi (5 più del fissato), malissimo Rio 2016 costato per The Oxford Olympics Study il 352% più del budget e via così... Né sono stati migliori i bilanci dei mondiali di calcio. Al punto che i prossimi nel 2026 saranno organizzati insieme da Canada, Stati Uniti e Messico. E che i successivi, nel 2030, come spiegò mesi fa il presidente della Fifa Gianni Infantino dicendo che «in un mondo sempre più diviso e aggressivo il calcio deve unire», si svolgeranno in sei paesi di tre continenti diversi: Spagna e Portogallo per l’Europa, Marocco per l’Africa, Uruguay, Paraguay e Argentina per il Sudamerica. Una svolta che oggi irride alla cocciutaggine nel 2006 di Silvio Berlusconi, dell’allora ministro Franco Frattini e del presidente del Coni Gianni Petrucci («No: l’impianto deve essere italiano») di rifiutare l’idea di Evelina Christillin di usare per il bob («ci costerebbe meno portare atleti e spettatori in elicottero») la pista francese di Albertville già usata pochi anni prima dai francesi. E più ancora il rifiuto del governatore veneto Luca Zaia e dei governi italiani dal 2017 in qua a rinunciare, per il solito «buon nome», a spendere un’altra montagna di soldi per un nuovo costosissimo impianto cortinese per uno sport che coinvolge una manciata di praticanti e costerà una tombola annuale per la manutenzione.
Di più: sapete cosa è inciso nel piedistallo della statua di Charles de Gaulle sugli Champs-Élysées? C’è scritto: «Il y a un pacte vingt fois séculaire entre la grandeur de la France et la liberté du monde». C’è un patto di duemila anni tra la grandezza della Francia e la libertà del mondo. La frase che il generale che salvò l’onore del suo paese occupato dai nazisti pronunciò nel celeberrimo discorso da Londra del 1941. Sono decenni che gli antipatizzanti fanno ironie sulla «grandeur» francese. A volte, magari, anche con qualche ragione. Se a certi eccessi, davanti ai conti, rinunciano loro, è mai possibile che restiamo appesi noi per una «grandeur all’italiana»?