Corriere della Sera, 27 luglio 2024
Antidoti meno efficaci
Siamo tra i padri fondatori, o madri fondatrici, di questa Europa. Ma è come se ci fossimo dimenticati cos’è, a cosa serve e a chi. Eppure la storia è abbastanza fresca, o dovrebbe esserlo, per ricordare che tutto è nato come risposta ai disastri di dittature e guerre che avevano sventrato il nostro continente. E l’antidoto ai nazionalismi brutali che ne erano stati causa non poteva che essere una democrazia estesa e condivisa, basata su pochi valori comuni, in parte riassunti da un politico non abbastanza ricordato come Olof Palme: «Noi democratici non siamo contro la ricchezza. Siamo contro la povertà». Sembra appartenere a un tempo lontanissimo anche il premio Nobel per la Pace assegnato nel 2012 proprio alla nostra Europa, con questa motivazione: «Per oltre sei decenni ha contribuito all’avanzamento della pace, della riconciliazione, della tutela dei diritti umani».
La sensazione è che tutto questo patrimonio di buone intenzioni, e di argine contro il rinascere di intenzioni di opposta natura, si stia inesorabilmente perdendo. La casa comune di 27 Paesi conserva di comune giusto la moneta, mentre diventano sempre più evidenti le faglie e i gradi di separazione tra i partecipanti di quella che doveva rappresentare un’alternativa e insieme una difesa alle ingerenze esterne di superpotenze storiche e rampanti.
Q ualcosa però non ha funzionato, o ha smesso da parecchio di funzionare, se Bruxelles o Strasburgo vengono vissuti come luoghi alieni, stranieri, che ci costringono a pagare più tasse e che castigano chi non riga dritto con i propri bilanci. Colpa di un vento che soffia nelle vele di una propaganda che vuole l’Europa matrigna e quindi qualcosa da cui difendersi invece che da difendere. Un vento che non nasce da un bizzarro gioco di correnti ma da una volontà di disgregare quello che a fatica, e con innumerevoli errori, si è costruito, trasformando l’invenzione centripeta di una grande forza politica indipendente in un appetibile mercato agitato da forze centrifughe e da conquistare a morsi, e non solo nei suoi asset industriali o finanziari strategici.
La responsabilità di questa Europa percepita quasi fosse una nemica, ossessionata più dai bilanci più che dal necessario rispetto dei patti che la tengono insieme, è in parte attribuibile anche a chi, dagli alti palazzi vetrati delle nostre istituzioni continentali, non ha saputo rappresentarla nei suoi valori e princìpi ispiratori, stimolando nei cittadini il senso di appartenenza a una comunità capace di riunire, smussandole, le diversità di chi vi partecipa. E il pensiero va per contrasto a chi questo compito l’ha svolto al meglio, David Sassoli, ambasciatore ideale di un’idea senza la quale ciascuno dei Paesi che vi aderiscono sarebbe più debole, oppure satellite dei tanti affamati tartari che ormai bivaccano sotto le mura, quando non già dentro, della nostra sempre più sbriciolata fortezza Bastiani.
Per la prima volta da quando l’Europa, o più precisamente l’Unione europea (da cui la sigla Ue), esiste come realtà politica e non soltanto geografica, l’Italia ha votato contro la maggioranza che la guiderà nei prossimi anni. Scelta del tutto legittima da parte di Giorgia Meloni, anche se non priva di rischi. Come quello di ritrovarsi opposizione in un momento di debolezza, e quindi di estremo bisogno di aiuto, su troppi fronti contemporaneamente: dalla non ratifica del Mes alla direttiva Bolkestein sui balneari (fino a quando ci sarà concesso di rimandarne l’attuazione?), passando per una Finanziaria che dovrà trovare 13 miliardi l’anno per il rientro dal deficit.
Qui non si tratta di contare di più o di meno, e a giudicare dalle prime nomine dopo la riconferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione il saldo è al momento negativo. Il punto di prospettiva più delicato riguarda il massimo degli impegni presi proprio con la Ue: come impiegare i fondi del Pnrr. Finora, sui 194 stabiliti, abbiamo già incassato 102 miliardi, spendendone la metà, ed entro l’anno prossimo dovremo spiegare voce per voce che cosa faremo del tanto che resta. La risposta più onesta l’ha già data il ministro dell’Economia Giorgetti: l’unica vera possibilità che abbiamo è di ottenere una proroga. O sperare che l’Europa cambi definitivamente corso, distratta da altre priorità, come la saldatura tra i suprematisti della razza e della patria con l’indiscusso campione della categoria, Donald Trump, posto che a novembre alla Casa Bianca vada lui.
Ma a questo è ridotto il sogno dell’Europa sognato da fondatori e fondatrici: aspettare l’esito di elezioni in altro Paese, pur con funzioni di calamita sul resto del pianeta, per decidere chi essere, da che parte stare, chi servire