la Repubblica, 28 luglio 2024
Il secolo di Goti “Io, mai uscita da Auschwitz”
«Ogni volta che penso ai luoghi in cui ho vissuto, Berechovo, Fiume, L’Asmara, Milano, il primo posto che mi viene in mente è Auschwitz. È il posto in cui mi sento più a casa mia. Penso che la mia casa sia questa. Lì ho perso i miei genitori, mio fratello…». Queste le parole di Agata (Goti) Herskovits Bauer, pronunciate in piena lucidità pochi giorni fa a Milano, a pochi giorni dal suo centesimo compleanno.
Goti è una dei pochissimi sopravvissuti ad Auschwitz-Birkenau ad essere ancora con noi. Nasce il 29 luglio del 1924 a Berechovo, in Cecoslovacchia, al confine con l’Ungheria, ma quattro anni dopo la sua famiglia, composta da papà, mamma e un fratello minore, Tibor, si trasferisce a Fiume. La sua è una famiglia di ebrei osservanti e il padre, commerciante, per un periodo è anche presidente della Comunità ebraica della città. Trascorre l’adolescenza con gioiosa serenità, contrassegnata da un brillante percorso scolastico, fino alla tragica promulgazione delle leggi antiebraiche.
Ancora oggi ritorna spesso a questo periodo della sua vita, riflettendo sulle reazioni duplici e contrastanti, da parte della società “civile”, alle ingiustizie, ieri come oggi. Racconta di aver ricevuto una telefonata, alcuni anni fa a Milano, dalla sua vecchia compagna di banco a Fiume, di cui non aveva più notizie: «Non speravo più di risentirti… t’ho pensato tanto nella vita». Ma Goti, rimanendo di ghiaccio, perdendo la sua naturale dolcezza: «Ma com’è possibile che tu mi dica questo! Io di quel periodo ho un ricordo molto sofferto, l’ho vissuto con grande dolore perché voi compagni, tu soprattutto, non mi avete nemmeno più salutato». E la compagna: «Ma come, se ho sofferto tanto quando ci siamo dovute separare…». Goti non l’ha più rivista, anche se, nonostante il male ricevuto, non ama mantenere rancori: «Non l’ho mai fatto nella vita, non mi appartiene. E poi è così difficile giudicare il comportamento». Mai una punta d’odio, manemmeno di naturale e legittimo risentimento.
Fino a tutto il 1943, dice, per gli ebrei sono anni di «stato cronico di preoccupazione, di ansia, di disperazione, di vendita a valori ridicoli di beni preziosi per cercare una via di fuga, di vigliacco sciacallaggio collettivo». Ora, proprio quando sembra che non ci sia più via d’uscita, ecco che agli Herskovits arriva in soccorso una famiglia di meravigliosi vicini di casa, la famiglia Braida, oggi residente a Gorizia, che propongono questa soluzione: «Voi non dovete assolutamente rischiare la vostra vita qui. Vi diamo noi l’oro per poter andare via». E questo è un avvenimento che mostra a Goti il lato migliore dell’uomo: «È stata una cosa di cui, finché vivrò, conserverò un ricordo molto, molto dolce».
Agli inizi del 1944, la situazione in casa diventa insostenibile quando il padre si ammala ed è costretto a rimanere a letto. Viene ricoverato a Trieste dal Professor Ravasini, altra«persona perbene», mentre il resto della famiglia si rifugia a Viserba, anche se Goti periodicamente continua a raggiungere Trieste per visitare il padre. Un giorno, tuttavia, anche Ravasini non è più in grado di nascondere il suo paziente, che viene portato con grande fatica da Goti a Viserba. Lì si rendono conto, però, di correre gli stessi pericoli che in Friuli, perché l’impiegato comunale che ha procurato loro i documenti falsi, per avidità ne ha realizzati troppi e la notizia è diventata di pubblico dominio.
Una soluzione che sembra definitiva sembra essere quella che porta all’organizzazione del Cardinal Schuster, a Milano. Con altre famiglie di ebrei fiumani, sono indirizzati a una drogheria in via Lulli, e accolti dai coniugi Cucchi. «Questa coppia provvedeva a trasferire gli ebrei al di là del confine svizzero per una cifra molto alta a testa che ti dissanguava (sembra almeno ventimila lire). Eravamo tranquilli perché dimostravano che ogni giorno portavano un gruppo che attestava di essere arrivato in salvo con la restituzione di una mezza figurina che era stata data alla partenza, in modo che questa mezza figurina combaciasse con un’altra mezza che loro si erano trattenuti qui per dimostrare al gruppo del giorno dopo che tutto era andato a buon fine».
Una sera il gruppo, di circa 12-15persone, viene accompagnato a prendere il treno per Varese e consegnato a delle “guide”, due fratelli e un cugino. Tibor e il padre partono subito, Goti e la mamma il giorno dopo. «Le guide, questi mascalzoni, erano estremamente gentili e servizievoli. Davano la mano a chi era più in difficoltà per aiutarli. E continuavano a dire: “Ancora un piccolo sforzo che siete arrivati al sicuro”. Uno di questi mi ha detto: “E lei cosa direbbe se io fossi una spia dei tedeschi?” Così, in tono scherzoso, e ci abbiamo fatto su anche una risata”. Poi questi dicono in tono serio: “Avete da fare solo due passi, quel ponticello sul fiume, e siete in Svizzera. Noi di là non ci possiamo andare, per cui ci salutiamo qua. Dateci la mezza figurina che noi ce ne torniamo a casa. Vi auguriamo buona fortuna”. Tutto nella maniera più tranquilla, più amichevole possibile. Si giravano e, una volta andati, emettevano un fischio; alla nostra destra si accendevano le luci di una casermetta, uscivano i finanzieri, al comando del maresciallo Vincenzo Rossi, e ci davano l’altolà. Eravamo a Cremenaga, nella notte tra l’1 e il 2 di maggio». Poi, a Pontetresa, sono consegnati ai tedeschi, trasferiti nel carcere di Como, quindi in quello di Varese; in questo trasporto Goti e la mamma incontrano papà e Tibor, che ci si illudeva fossero al sicuro in Svizzera.
Si rendono conto di essere stati selvaggiamente venduti (in un processo- farsa che ha luogo nel 1947, quei “mascalzoni” vengono tutti assolti). Infine, su un camion sono trasportati nel carcere milanese di San Vittore e alcuni giorni dopo sono inviati nel campo di transito di Fossoli, dove rimangono pochissimo, perché il 16 di maggio sono caricati su un treno per Auschwitz. «Di quel viaggio io ho il preminente ricordo del desiderio di tenerezza che c’era tra tutti noi. Questi genitori nei confronti dei figli; questi figli, che magari a casa erano stati discoli, che cercavano in tutte le maniere di rasserenare i genitori, di consolarli. Noi giovani ci chiedevamo se mai più saremmo più tornati... e di quel vagone sono tornati molto pochi».
All’arrivo a Birkenau, come tutti gli ebrei lì deportati, gli Herzkovits subiscono la cosiddetta “selezione”: lei e Tibor entrano in campo, i genitori sono condotti alle camere a gas. Durante l’immatricolazione, Goti chiede dove siano finiti i genitori, e la risposta, secca e crudele, è la seguente: «Voi pensate di rivedere le vostre madri, le vostre sorelle? Ma voi dove credete di essere arrivate? Non siete mica in un luogo di vacanza o in un sanatorio, siete in un Vernichtungslager, in un campo di sterminio. Volete vedere dove sono finite le vostre madri? – mostrando una costruzione in cemento sovrastata da un alto camino da cui esce una fiamma – Se non sono ancora bruciate, stanno bruciando adesso». Ancora oggi è fortemente presente nella sua testa la reazione di tutte le deportate di fronte a quelle parole, «l’eco di quel lamento, di quella disperazioneespressa in tutte le lingued’Europa».
Goti, dopo un breve periodo di “quarantena”, è costretta a vivere proprio all’ombra di quel camino, perché è assegnata al Block 27,quello più vicino al Krematorium II, sempre cosciente del fatto che l’unica possibilità di uscire da quel campo è“durch den Kamin”, attraverso il camino. «In quella baracca, l’aria, il fumo e le fiamme ci riempivano l’anima, prima delle narici». Pochi mesi dopo, durante i quali è obbligata a svolgere lavori disumani e a subire violenze e umiliazioni inenarrabili, viene trasferita all’interno del Reich, in Sassonia,a lavorare in una fabbrica dimunizioni.
All’avvicinarsi del fronte, ha luogo un ultimo trasferimento: attraverso una “marcia della morte”, le prigioniere, ormai in condizioni spaventose, sono inviate a piedi fino al campo-ghetto di Theresienstadt, non lontano da Praga. Gira voce che i nazisti vogliano eliminare tutti i prigionieri. Goti crede sia arrivata la fine, ma, sfinita, perde coscienza senza rendersi conto che i persecutori scompaiono e che il campo il 5 maggio è affidato alla Croce Rossa. L’8 maggio arrivano i liberatori sovietici. Goti torna in Italia sola, anche il caro fratello Tibor non ce l’ha fatta.
Trova un alloggio iniziale a Fiume, presso la famiglia Braida, che ha conservato tutto quello che le era stato affidato dagli Herkovits, poi, a Milano, a casa di amici conosce Rodolfo (Rudy) Bauer, di cui si innamora immediatamente, che sposa e col quale si trasferisce a l’Asmara, dove Rudy lavora. Dopo la nascita di due figlie, decidono di stabilirsi definitivamente a Milano. Alla fine degli anni Ottanta Goti decide di incomincia a testimoniare in alcune scuole lombarde. Per la società è l’inizio di una presa di coscienza di cui aveva assolutamente bisogno, ma per le figlie, che hanno il terrore di saperne di più, questo “apre un baratro”: «Nessuno di noi voleva parlarne, né noi, ma nemmeno la mamma», afferma ancora Rosanna, che confessa di avere un «grande buco nero» sulla sua «famiglia che non c’è» proprio per non aver fatto sufficientemente domande. Fino a 95 anni si dedica a raccontare, soprattutto nelle scuole e a formare sul tema gli insegnanti (è lei che spinge l’amica Liliana Segre a testimoniare), sorprendendo sempre tutti per il candore e la mitezza del suo atteggiamento, pur non essendo mai “uscita” da Auschwitz, pur ricordando ancor oggi, ogni giorno, la separazione da sua madre, sulla Rampa di Birkenau. «Ricorderò sempre lo sguardo disperato di mia madre che a un certo punto si è girata per salutarmi ancora. Aveva quarantaquattro anni. È un momento che mi accompagnerà fino alla fine dei miei giorni».