il Giornale, 26 luglio 2024
Che tristezza scrivere libri per i critici
In un’intervista di Aldo Cazzullo e Roberta Scorranese a Paolo Repetti, editor in capo di Stile Libero, Einaudi, uscita sul Corriere della Sera il 4 luglio, leggo alcune cose interessanti.
Dice Paolo Repetti nello spiegare la felice intuizione di pubblicare la Gioventù cannibale negli anni ’90: «allora c’era una comunità letteraria compatta alla quale ti potevi rivolgere e che ti seguiva. oggi credo che il pubblico dei lettori sia destrutturato, fatto di tante particelle e diventa difficile non solo lanciare una corrente letteraria, ma anche fare critica». E aggiunge: «Credo che la critica letteraria non si faccia quasi più, oppure che sia spesso un esercizio impressionistico mutuato dalla rete. Mi piace o non mi piace. In fondo, la letteratura oggi potrebbe dirsi un grande mainstream globale dove il mantra è funziona o non funziona».
Repetti parla di comunità letteraria, giustamente, perché c’era e la si potrebbe chiamare anche comunità di addetti ai lavori, cioè un gruppo di persone che stabiliva chi poteva o non poteva farne parte. Un gruppo dove i rapporti di forza erano basati su modalità ereditate dai decenni precedenti ma nascondevano tensioni di rinnovamento in contraddizione con quello stesso modo di fare comunità. Se quel rinnovamento c’è stato, il merito è sia dei cannibali che dei loro editori. Quello dei cannibali, agli occhi dei ragazzi che ne leggevano i libri, me compreso, era proprio la rottura che rappresentavano con la comunità letteraria di allora; la nascita di stili e visioni che stando alle abitudini non sarebbero dovuti emergere. Fu il mercato a limitare il potere di chi in quella comunità aveva maggior prestigio accumulato, a dare evidenza a costoro della validità delle nuove opere non solo in termini di copie vendute, ma attraverso le vendite il riconoscimento da parte dei lettori della dignità letteraria di quelle opere. Se c’era un motivo di dibatterne, dipendeva dal fatto che chi le acquistava, e leggeva, si entusiasmava. Il merito di Repetti e Cesari è stato quello di usare il mercato come linguaggio. Del resto, scegliendo per la loro collana il nome di Stile Libero, sono stati i primi ad affermare che da qualcosa ci si doveva liberare, non è così? E cos’altro se non quella sclerotizzata comunità letteraria?
Tra i critici che con l’antologia cannibale ebbero modo di esordire, Repetti ricorda Filippo La Porta e Emanuele Trevi. Ma più che di «generazione di critici», anche qui, parlerei di singoli autori che spigavano con le proprie personalità oltre le abitudini letterarie nostrane. Non a caso l’indimenticabile libro d’esordio di Trevi, Istruzioni per l’uso del lupo è prima di tutto un libro di critica della critica. Che una richiesta di cambiamento fosse nell’aria già prima del progetto editoriale di Stile Libero col senno di poi lo si può rintracciare nei poeti del decennio precedente riconducibili a riviste come Braci, per citarne una, che accoglieva nomi come quello di Beppe Salvia, forse il più cannibale prima dei cannibali, ma lo stesso si potrebbe dire di Antonio Veneziani o Dario Bellezza.
Che non esista più una comunità letteraria, nel senso che l’espressione aveva in quegli anni, è un bene, e solo chi volesse sfruttare l’ambito letterario con finalità di potere avrebbe da ridire. Resta da capire se sia del tutto vero che sia scomparsa. Ancora oggi piace far parte di un gruppo esclusivo, condividere codici, firmare appelli. Piace concedere a qualcuno lo status di scrittore perché poterglielo accordare significa esserlo noi per primi, o qualcosa di persino superiore. Certamente più di allora, oggi di fronte al mare aperto delle possibilità editoriali un autore può impegnarsi nel lavoro di scrittura senza dover per forza frequentare un gruppo di anziani in vena di bonaria accondiscendenza o sorniona esclusione. Può fare ciò che gli compete, concentrarsi sulla scrittura senza dover spendere ore del suo tempo a fare telefonate, scambiare convenevoli, incontrare chicchessia controvoglia con sorrisi di circostanza. Per una giustizia inaspettata, io credo divina, il mercato consegna agli scrittori una nuova condizione di libertà: come nella chiusura di un cerchio, cioè andando in direzione contraria a quella naturale che avrebbe preso, si torna pur sempre a ciò che la letteratura è sempre stata, lavoro sulla pagina e nient’altro, per cui chi sa farlo avrà uno spazio nell’unica vera comunità esistente, che è quella dei lettori. Dunque, parliamo di questa.
Nelle parole di Repetti il passaggio da comunità letteraria a pubblico dei lettori avviene in fretta, ma è lì lo spazio di ragionamento. È vero, la comunità di lettori è destrutturata, se no sarebbe l’altra, quella letteraria, avrebbe la camicia inamidata. Lo stato di cose attuale potrebbe essere l’esito di una felice evoluzione di una assidua attività di lettura da parte di individui che sono liberi più di quanto talune combriccole letterarie di oggi siano disposte ad ammettere; sono adulti abbastanza da prendere atto dei dibattiti sui quotidiani, delle opinioni, delle classifiche, per poi muoversi tra i titoli in uscita per alimentare un percorso a cui danno vita da soli, arricchendo i propri interessi o un’ermeneutica domestica non per questo meno seria. Delle due l’una: o il lavoro degli editori in questi ultimi decenni ha fruttato qualcosa in termini di liberazione delle coscienze dei lettori, e il senso critico è aumentato in chi legge e gli va riconosciuto, oppure stiamo dicendo che è stato tutto uno scherzo, nel qual caso va in vacca tutto e il fatto che la critica sia venuta meno segue in conseguenza.
È vero, per definizione la cultura si fa insieme, e da che mondo è mondo artisti e intellettuali hanno sempre cercato un confronto reciproco. Ma sono sempre state singole personalità in relazione, soprattutto quando hanno dato vita a correnti e avanguardie. Chi nell’attuale comunità di lettori rintraccia una perdita del fare cultura dal momento che vede una mancanza di malta fra chi legge, chi scrive e chi scrive dei libri che legge, e ne fa unicamente motivo di lamentela, evidentemente vorrebbe ci fosse ancora un gruppo che detti le regole. La sopravvalutata decadenza dei costumi nella fattispecie culturali potrebbe benissimo essere, invece, la libertà ritrovata della solitudine necessaria a scrivere o leggere qualcosa di buono. L’unico legante tra autore e lettore è l’opera. Facile dirlo. Accettarlo fino in fondo impone che l’eventualità di vedere la propria perdersi nel mare magnum delle novità editoriali sia una conseguenza severa, spietata ma sincera, del fatto che evidentemente non ha presa in chi legge. Solo in una tale condizione si può apprezzare il fatto che il romanzo funzioni o non funzioni. A me pare la sola legge degna di nota. Rappresenta di certo un grosso limite, un ostacolo, perché non si ha null’altro a cui affidare il proprio lavoro, ma i bravi scrittori hanno bisogno di paletti seri, difficoltà autentiche da superare, non scegliersi i problemi in funzione delle soluzioni che hanno pronte. Uno scrittore può e deve essere sincero solo in questo. Chi scrive senza badare a ciò che si potrà dire della propria opera; chi scrive senza contribuire a mantenere in piedi una comunità che presto o tardi lo premierà per il solo fatto di farne parte, e si preoccupi invece solo di ciò che può instaurare in intimità col lettore, avrà dalla sua unicamente il fiuto per la pagina, un istinto per le sue proporzioni interne, e sarà ripagato solo dalle epifanie del testo. La pagina già ora funziona o non funziona. Un giro di frasi suona o non suona. Non c’è altro. Raro e già bastevole per apprezzare un’opera e il suo autore è quel fiuto, scevro da condizionamenti. Lo scrittore non è un filosofo, né uno storico, non ha un pensiero da esprimere, piuttosto l’opera ha un pensiero suo, che deve essere ricavato in fase critica, ed eccoci al punto: la critica è andata affievolendosi perché è già presente nei romanzi. La maggioranza degli scrittori di oggi istruisce le proprie opere con un fare critico già insito a monte e lungo tutto il testo. Il pensiero delle loro opere non è da ricavare, non riposa sotto lo stile, ma è offerto al lettore spesso fin dal titolo. I romanzi italiani per la maggior parte dissimulano (male) la pretesa di un pensiero, ora sulla società, ora sulla letteratura, ora sui sentimenti e le emozioni, gli affetti, la famiglia, la Scuola, ma sempre per dare conferme. Un pensiero non schietto, perché debole, non scientifico, opinabile, a cui tentano di dare forza con lo stile finendo con l’indebolire sia il pensiero sia lo stile. Coloro che scrivono per togliere certezze continuano a essere pochi, pochissimi.