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 2024  luglio 26 Venerdì calendario

Intervista a Ottavia Monicelli

Che padre era Monicelli? «Mi ha sempre sostenuta. Ha educato me e le mie sorelle alla libertà, ma era severo, non amava si perdesse tempo. Carlo Vanzina, che fu suo assistente, diceva che era sempre a fuoco: non ripeteva più di due volte un ciak».
Ottavia Monicelli, nata da Mario e da Antonella Salerni, racconta suo padre, pluripremiato genio della commedia all’italiana, entrato nella storia del cinema con film come I soliti ignotiLa grande guerraL’armata BrancaleoneIl marchese del GrilloSperiamo che sia femmina. Nel 2013 aveva già parlato del regista nel libro Guai ai baci
Da dove veniva la disciplina?
«Da una famiglia poco sentimentale. Sua madre Maria era una donna austera. Mio padre era del 1915, ha vissuto con semplicità monastica».
Anche dopo?
«Negli ultimi anni abitava in una casetta in via dei Serpenti. Andava in autobus, non si concedeva vacanze, non era interessato ai soldi».
Le parlava del padre Tomaso, che nel ’46 si tolse la vita?
«Solo una volta. È stato un trauma per papà, che era in casa in quel momento».
Siete tre sorelle, cosa avete di lui?
«Martina il distacco verso ricordi e oggetti. Rosa uno sguardo che osserva da lontano. Io sono la più romantica. Anche papà lo era».
Per esempio?
«Verso le compagne, con dolce umorismo. Ho letto interviste in cui Chiara (Rapaccini, ultima compagna, madre di Rosa, n.d.r.) parlava dei messaggi spiritosi, ma d’amore, che le lasciava in luoghi insoliti della casa. Penso alle fughe con mia madre, a quelle con Chiara.  Era indecifrabile, con una mappatura complessa e bellissima. Ha fatto in modo che anche noi sorelle ci scoprissimo a vicenda».
La vostra sorellanza è una ricomposizione del padre?
«Per noi credo sia importante trovare nell’altra aspetti di papà. Mi manca. Ci sono vissuti che non sono riuscita a fermare».
Quali?
«Le cene, i pranzi quando veniva qui, momenti tanto potenti e poetici da non poter essere protetti. Erano emozioni forti anche per lui, così legato al mio primo figlio e a quello di Martina. Mi dispiace non abbia potuto vedere il figlio di mia sorella Rosa».
Un nonno tenero?
«Tenerissimo, ma come ho scritto: “Guai ai baci!”».
Scrive anche: «Papà andò via e nessuno disse niente. Ed è stato sempre così nella nostra famiglia, nelle nostre vite. Ogni cosa avveniva senza che le si potesse dare un nome»...
«È andato via perché era il momento di separarsi, anche se con mia madre sono rimasti amici tutta la vita. Non comprava neppure i calzini senza chiedere a lei. Sono sempre stati solidi nel loro volersi bene. Non ho sofferto la separazione, mi è mancata la quotidianità. Nella mia famiglia le fratture sono avvenute senza analisi profonde».
Perché?
«I sentimenti non erano ben visti: “Che ti piangi?”. Per un figlio questa freddezza non è semplice. Crescendo ci si prende dimestichezza, si assimila. Anche io vivo tra sentimento e disincanto».
E quando la quotidianità c’era?
«Ci parlava di tante cose. Discorreva di Storia, di Letteratura, di attualità. Aveva una cultura anarchica che spaziava in ogni ambito».
Era un uomo politico?
«Molto e questo l’ho ereditato. Era militante. Ha attraversato l’onda della protesta studentesca. Era a Genova nel 2001 con Citto Maselli per girare immagini sul Genoa Social Forum. Si è schierato con chi aveva subito quei soprusi indicibili. Non aveva paura. Credeva nella contestazione».
Chi erano i suoi amici?
«Persone straordinarie: Piero De Bernardi, Leo Benvenuti, Suso Cecchi d’Amico, Furio Scarpelli. Ha lavorato con Nino Rota, Nicola Piovani, Carlo Rustichelli. Con i più grandi attori del cinema. Oggi non c’è nulla in confronto».
Cos’era il suo cinema?
«Con il primo film, a 20 anni, vinse un premio a Venezia. Iniziò a collaborare con Steno. Ha fatto un cinema internazionale, non sempre capito».
Ricorda quelle atmosfere?
«Da Otello alla Concordia c’era una tavola sociale alla quale sedevano tutti i cinematografari. Scendevo da scuola, andavo lì, dove mia madre giocava a carte. Mangiavo con Vittorio Gassman, Tonino Delli Colli. Furio Scarpelli è stato come uno zio. Un mondo che non esiste più».
A proposito di Scarpelli...
«Squillò il telefono a casa. C’era un’amante alla cornetta, mio padre diceva: “Non posso vivere senza di te”. Mia madre ascoltava da un altro apparecchio. Chiese: “Mario, ma chi era? A chi dicevi ‘Non posso vivere senza di te?’”. E lui: “A Furio Scarpelli”. Un’altra volta: “C’è Mario?”. “No. Ma lei chi è?”. “Sono la fidanzata”. Allora mamma: “Io sono la moglie. Qua ci sono le camicie da stirare, se viene facciamo a metà”».
Su questa copia di «Una vita violenta» c’è una dedica di Pasolini...
«Sì: “A Mariuccio, in ricordo di tante scorribande notturne fra i lunghi coltelli delle borgate. PPaolo”. E ho altri cimeli».
Uno che non ha e vorrebbe?
«Il Leone d’oro che vinse per La Grande Guerra, ex aequo con Il generale Della Rovere di Rossellini».
Nel libro scrive: «Ho cercato il suo amore». Dov’era?
«Era lì e non lo capivo. Era tutto amore: i piccoli gesti, i nostri aperitivi silenziosi, lui che leggeva il giornale, io un libro, seduti accanto. Ultimamente andavamo in un ristorante tremendo in via Cavour con una luce al neon indescrivibile. Facevano tre piatti: la minestrina, l’uovo al tegamino e qualcos’altro. Mi diceva: “Prendi la minestrina! È buonissima”. E poi vino, che lui reggeva, io meno. Parlavamo di tutto».
Lo accompagnava nelle grandi occasioni?
«Diceva che gli facevo fare bella figura. Martina era schiva, Rosa troppo giovane. A volte non ero a mio agio. Lui si innervosiva se sentiva la mia fragilità: “Vabbeh, adesso che c’hai sempre bisogno di me?”. Poi si dispiaceva».
Duro?
«Se cercavo di stargli accanto: “Che devi rompere i coglioni a me? Vatti a bere un bicchiere”. In macchina gli chiedevo: “Perché mi porti se poi mi cacci?”. “Beh, stavo parlando col giornalista...».
E al Festival di Venezia? 
«“Papà posso avere un pass per vedere i film?”. “Che pass e pass, paga il biglietto”».
Andavate al cinema?
«Odiava andarci. A volte lo trascinavo e lui dopo poco si dileguava. Da casa lo chiamavo: “Papà, dove sei finito?”. “Era una noia! Lento!”».
Un padre difficile?
«Credeva nella sacralità della libertà di ciascuno».
Qualche vanità?
«Gli piaceva vestirsi bene, comprava le scarpe Tobacco che portavano i ragazzi. Non si proteggeva però con la sua vanità, parlava alla pari con tutti. Era disponibile verso i giornalisti. Era di sinistra, si sentiva uno del popolo, si guardava intorno con gli occhi di un uomo che osserva le cose per come sono, con generosità e umorismo».
Antipatie?
«Non parlava mai male di nessuno. Amava però ascoltare i pettegolezzi, perché avevano una dimensione popolare. Eravamo fissati con una radio notturna: le persone telefonavano e si raccontavano. Il giorno dopo ci chiamavamo per commentare. Erano una fonte d’ispirazione».
Temeva la vecchiaia?
«Una volta siamo andati a trovare Mauro Bolognini. Mauro era molto ammalato e papà si commosse. Fu uno dei pochi momenti in cui l’ho visto fragile».
Lo sogna?
«Ho sognato più volte la sua morte, un’immagine ricorrente con cui a lungo non ho fatto pace. Adesso lo sogno spesso allegro, insieme a mia madre, ci divertiamo».
Si è spiegata la scelta di suo padre?
«Nel togliersi la vita ha voluto dare spazio a ciò che in Italia non riusciamo ad avere: una morte dignitosa, quando la vita non lo è più. Si sentiva vecchio, temeva di non essere più indipendente, anche per questo ha fatto un atto a prima vista violento. È stato molto coraggioso e lucidissimo».
Che cosa le resta di lui?
«Molto, più di quel che comprendevo quand’era in vita. Non porto fardelli, solo gioia».
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