La Stampa, 25 luglio 2024
Quando il Pci fece licenziare Anna Maria Ortese
«Sai, passiamo dei periodi come se uno fosse avvelenato, pieno di cose che ti staccano dal profondo di te». Scriveva così Anna Maria Ortese alla sua amica Angela, moglie dello scrittore pesarese Fabio Tombari, in una lettera rimasta fino ad oggi inedita e che siamo in grado di rivelare grazie a un paziente lavoro di ricerca. Era il 7 novembre del 1948, e la scrittrice era stata ospite della coppia nel maggio dell’anno precedente, appassionandosi, grazie a loro, entrambi seguaci di Steiner, all’antroposofia. Nel periodo di cui parla nella lettera, pur seguitando a collaborare con i quotidiani napoletani La Voce e Risorgimento, la Ortese aveva colto al balzo una ghiotta occasione d’assunzione al settimanale milanese Omnibus, diretto da Salvato Cappelli, che all’epoca ospitava articoli di Calvino, Vittorini, Pavese e aveva un profondo radicamento con la linea del Pci di Palmiro Togliatti. Vi era arrivata grazie al suo amico Pasquale Prunas, che in coppia con Cappelli creò qualche anno dopo Le ore, un rotocalco rivoluzionario, e che era già collaboratore della testata.
«Da quando sono partita per Milano la prima volta – scrive la Ortese all’amica – ho vissuto un’esistenza febbrile e angosciata perché troppo crudo era il passaggio da un sistema all’altro. Ero con Omnibus, sai: morivo dal dolore di non vedere più Napoli, di trovarmi a Milano. Era l’estate, vivevo in casa di Lelj, che è stato un ottimo carissimo amico (si riferisce con ogni probabilità a Massimo Lelj, autore Bompiani ed ex inviato di guerra del Corriere della Sera, ndr); ma non ero lieta! Quanto al lavoro, prendevo lo stipendio di redazione (ma non facevo nulla, non perché non volevo, ma perché non c’era lavoro) e il compenso dei radi articoli in cose di Milano. Il lavoro che mi era stato assegnato non mi piaceva, mi urtava». In effetti nei pochi servizi da lei firmati in quell’agosto milanese (sull’ippodromo di San Siro e l’Idroscalo) la sua prosa è irriconoscibile: legnosa, prevedibile, a tratti burocratica. I colori con cui dipinge qualunque ambiente sono corruschi, rispecchiano un profondo disagio interiore. Milano, che in seguito sarà da lei ampiamente rivalutata, le appare come il luogo dove ogni cosa reca il cartellino del prezzo. «Si è soli. Molto più soli che a Napoli» si lagnava con Prunas nel carteggio pubblicato anni fa da Archinto (Alla luce del Sud, a cura di Renata Prunas e Giuseppe Di Costanzo). «Ti coprono col mantello dell’ironia, non altro».
Cappelli, pur sapendo che Ortese non è una comunista militante, la sprona a essere più faziosa e ficcante, ma lei rifiuta «la violenza di parte»: «I pezzi che vorrei fare per Omnibus – confida a Prunas – dovrebbero essere una cronaca disintossicata della vita milanese, del mondo borghese di qui, ma non contro gli uomini veri e propri (com’è possibile odiare?) solo contro quanto di fatuo e mortale c’è nel loro costume». Il nodo a quel punto va sciolto: Anna Maria Ortese è o non è idonea a militare in una testata apertamente schierata? Cappelli la mette alla prova affidandole un’inchiesta delicata: «Decisero di mandarmi a Trieste per provare in pieno le mie possibilità giornalistiche» rivela la Ortese all’amica. «Rimasi là dieci giorni, molto felice, perché vedevo il mare e gente bella e serena. Poi tornai a Milano e mi misi a scrivere gli articoli su Trieste. Dopo aver consegnato il primo, che fu accolto con entusiasmo, tornai a Napoli».
Trieste era ancora uno staterello autonomo a quel tempo (il Territorio libero di Trieste), sebbene diviso in due zone: la A governata dagli Alleati, la B sotto il controllo jugoslavo. Dopo le elezioni politiche d’aprile e soprattutto dopo la rottura delle relazioni tra Tito e Stalin, il movimento comunista locale s’era scisso in due spezzoni: da una parte, la maggioranza kominformista fedele alla linea di Mosca, capeggiata dal famigerato Vittorio Vidali, un duro coinvolto in varie vicende di sangue, compreso l’omicidio di Trotsky; dall’altra, la minoranza filotitina. Il pendolo del comunismo comandato da Mosca oscillava ora nella direzione del Pci, anche se questo non significava che il Pci triestino fosse diventato un partito italiano. E comunque, l’obiettivo primario, comune sia a Togliatti che alle forze kominformiste, era liberarsi del controllo angloamericano. La prima puntata dell’inchiesta ortesiana ("L’amante slavo”, 14/10/1948), pur incentrata sulle posizioni della Lega nazionale, l’associazione irredentista risorta dalle sue ceneri nel ‘46, suggellava perlomeno quest’aspirazione: «Solo lo Slavo e nessun altro che lo Slavo (scaduto per sempre il decorosissimo Austriaco), è grande come nemico». Per contro, la seconda puntata ("Ma di che cosa è malata Trieste?”, 21/10/1948), spedita da Napoli, esaltava senza mezzi termini l’irredentismo: «Oggi, a Trieste, non c’è nulla di più commovente, di più straordinariamente importante della “Lega nazionale” (…) … gli anni in cui Trieste non ebbe la Lega, non fu cioè irredentista, ci paiono per Trieste brutti anni, fortunatamente passati». Giudizio che non poteva esser sottoscritto né da Botteghe oscure né da un Cappelli ligio osservante dell’ortodossia togliattiana. «Trovai tutti, a Omnibus, pieni di benevolenza e simpatia» prosegue laconicamente la Ortese. «Il servizio andava bene. Ma, dopo pochi giorni, saltò fuori la notizia che il Partito non era contento, e che bisognava troncare tutto. Rimasi senza fiato, umiliata e impensierita, anche perché lo stipendio di redazione non lo prendevo più e anticipi sul lavoro non me ne potevano dare. Come vivere?».
Con il licenziamento da Omnibus per volere del Pci, inizia per Anna Maria Ortese un periodo segnato da grandi difficoltà economiche, che la portò a dipendere da amici e conoscenti per il sostentamento e la ricerca di alloggi, sempre temporanei. «La verità è che io appartengo prima di tutto al P.C.D.D. (leggi: Partito Cercatori Di Dio), io non posso sentire la lotta di classe se non in funzione di quella contro il Male (bisogna proprio chiamarlo con lettere maiuscole), ch’è tanto, è solo in parte dovuto al fattore economico, in gran parte dipende invece da cose più grandi di noi, misteriose quanto difficili a intendersi», scriveva sempre in quell’estate del 1948 al suo amico Prunas; e mai avrebbe cambiato idea, assumendosi i rischi che ogni battitore libero della stampa dovrebbe mettere in conto.
Non per nulla la sua carriera giornalistica è lastricata di trionfi e crucifige feroci: ai maggiori allori corrisponde quasi sempre una reazione uguale e contraria di fischi e pollici versi. Tutte sollevazioni di sinistra, di militanti del Pci e intellettuali di quell’area in cui anche lei, a quel tempo, si collocava. Il mare non bagna Napoli, premio giornalistico Saint Vincent e premio letterario Viareggio 1953, è per metà costituito da inchieste sul campo. Quella sui Granili, pubblicata sul Mondo nel gennaio del ‘52, smosse addirittura i vertici dello Stato, il presidente Einaudi, che decretò ipso facto la smantellamento di quel falansterio degli orrori. Plausi seguiti da botte fragorose. “Il silenzio della ragione”, l’inchiesta sugli scrittori napoletani che le aveva commissionato Vittorini, scatenò un finimondo. La Ortese aveva descritto i vecchi compagni d’avventura di Sud, la rivista ideata e diretta da Prunas, come dei falliti, dei rinunciatari che avevano deposto istanze e armi illuministiche. Di più: li aveva messi in caricatura. Le avevano replicato, sdegnati, Compagnone, Domenico Rea e Gianni Scognamiglio; e tutto quel mondo di ferventi gazzettieri idealisti che palpita nelle pagine del Mistero napoletano di Ermanno Rea s’era riconosciuto nell’attacco sferratole da Nino Sansone sulle colonne di Rinascita. Era per quella cerchia il racconto d’una rinnegata, una che non credeva più alle magnifiche sorti e progressive della capitale del Sud.
L’anno dopo, ovvero nel ‘54, la Ortese partì per un lungo reportage a puntate tra Praga e la Russia assieme a una delegazione dell’Udi. Ebbene, con il suo meraviglioso racconto riuscì a scontentare tanto la destra che la sinistra. «C’era molto sacrificio, molta pena, molta sofferenza e obbedienza, e questo era sconsigliabile a dirsi per i Credenti di sinistra; ma anche bontà, speranza, saldezza, e questo non andava bene per i Credenti di destra». Già era stata isolata dalle compagne durante il soggiorno per il precedente del Mare non bagna Napoli; ma, al ritorno, fu anche accolta «con il viso dell’armi» (parole sue) dal «mondo della sinistra milanese». Tutti contro, meno Luchino Visconti. L’anno dopo, per quelle straordinarie corrispondenze e altri servizi giornalistici, le assegnarono un secondo premio Saint Vincent. Avrebbe continuato a collaborare a fogli di sinistra come Milano sera e L’Unità, grazie anche all’appoggio del suo compagno Marcello Venturi, che di quel giornale era caposervizio cultura, ma a quel punto Anna Maria divorziò per sempre da Botteghe oscure: «Sono uscita dal partito – dichiarò lapidariamente – perché volevano che io non ragionassi con la mia testa ma con la loro». —