RivistaStudio, 24 luglio 2024
La lunga storia del panino italiano nella cultura americana. dalla diaspora alle serie tv
Non Jeremy Allen White, neanche Ayo Edebiri e nemmeno Ebon Moss-Bachrach: a trarre il beneficio maggiore dal successo di The Bear (la cui terza stagione è cominciata ieri negli Usa, mentre in Italia è stata decisa la sfortunata data del 14 agosto per l’arrivo su Disney+) è stato un panino, l’italian beef che dà il nome – The Original Beef of Chicagoland – al disastrato ristorante di famiglia per salvare il quale Carmen “Carmy” Berzatto decide di lasciare la stellata vita dell’alta cucina newyorchese e tornare nei bassifondi metropolitani di Chicago. Sfilatino di pane farcito con straccetti di manzo alla griglia, da condire a piacere con giardiniera o peperoni arrostiti, servito con un contorno di patatine fritte e una tazza piena dei succhi della carne in cui inzuppare il panino.
L’italian beef è uno dei tantissimi panini “all’italiana” diventati parte della tradizione – di più, della mitologia – gastronomica americana. L’origin story è sempre quella: nessuno sa davvero chi lo abbia inventato né quando, ma lo scenario è quello della diaspora italiana di inizio Novecento, del proletariato urbano, di migliaia di uomini che sopravvivono ogni giorno ai pericoli del cantiere edilizio. Dal vecchio mondo i muratori italiani si erano portati appresso certe abitudini della povertà, aggiustandole leggermente grazie a un potere d’acquisto maggiore (non che ci volesse molto) e una superiore disponibilità di prodotti alimentari. È così che il pane e cipolla o il pane e formaggio della pausa pranzo italiana vengono adattati allo shift break americano: nel pane finiscono tutti i tagli di carne che la povertà – sempre quella – consentiva, in tante versioni regionali dell’italian sandwich il formaggio e la cipolla restano, si aggiungono i sottaceti e la lattuga, si inonda tutto con l’olio d’oliva e con l’aceto, spolverata di origano e via. Lungo tutta la costa est degli Stati Uniti e in alcune metropoli del Midwest (Chicago, per esempio) nascono variazioni locali sul tema dellitalian sandwich che prendono ognuno un nome proprio: hoagie a Philadelphia, hero a New York, italian nel Maine, spuckie a Boston. Alla fine si decide per il termine onnicomprensivo sub, che sta per submarine, dalla forma dello sfilatino usato quasi sempre per questi panini.
Cento anni dopo, la foodification – di cui The Bear è un involontario veicolo: “Will ‘The Bear’s’ Fame Ruin the Italian Beef”, si legge in un preoccupato titolo di Esquire – ha compiuto la sua opera implacabile su queste rozze schiscette. A Chicago c’è mancato poco che la folla inferocita prendesse d’assalto un ristorante nel cui menù era comparsa una versione dell’italian beef con carne wagyu e formaggio raclette. Prezzo: 31 dollari, patatine e intingolo inclusi. La domanda è cresciuta così tanto in così poco tempo che pure il New York Times – giornale di una città che si è sempre considerata la capitale del panino all’italiana – ha dovuto ammettere la supremazia chicagoana. Tra la fine della prima e l’inizio della seconda stagione di The Bear, su Reddit sono stati aperti decine di thread che chiedevano tutti la stessa cosa: dove posso trovare un buon italian beef in questa o quella città? A San Francisco, sull’altra cosa degli Stati Uniti, imprenditori furbacchioni hanno aperto locali che promettevano la solita “vera esperienza” di manzo del Midwest ai modaioli spendaccioni.
Se siete addentro al foodtok saprete che però la fama di The Bear se l’è goduta tantissimo un altro panino della tradizione gastronomica italoamericana imparentato alla lontana con l’italian beef: la cheesesteak (uno dei pochi piatti della cucina italoamericana di cui esiste anche una versione italiana: la cistecca di Monte Procida, piatto tipico dell’immigrazione di ritorno). La cheesesteak è assai simile all’italian beef: sfilatino, straccetti di manzo alla griglia, sulla presenza o assenza della cipolla nella ricetta originale il dibattito è ancora in corso, tutti concordano sul fatto che non si possa definire vera cheesesteak senza un lago di provolone fuso a coprire il tutto. Viene meglio sui social, la cheesesteak, perché poche cose stuzzicano l’appetito dell’algoritmo come le bave filamentose di formaggio fuso che uniscono le due metà di un panino appena spaccato: in gergo si chiama “cheese pull”, concetto fondamentale dell’estetica foodporn. La cheesesteak è tra l’altro la dimostrazione che la permalosità in fatto di cibo non è affatto l’esclusiva italiana che pensiamo sia: quando Rob McElhenney, nato e cresciuto a Philadelphia (La Mecca della cheesesteak), creatore della serie It’s Always Sunny in Philadelphia, disse che a lui la cheesesteak piace inzupparla appena appena nel ketchup, i cittadini di Philadelphia invitarono al boicottaggio della sua serie.
C’è sempre stato un certo legame tra l’italian sandwich e la cultura pop italoamericana, comunque. E il successo – o rinnovato successo – del primo è sempre stato un effetto di quello della seconda. Mentre Il padrino di Francis Ford Coppola diventava una delle maggiori opere d’arte del Novecento, nei menù di tantissimi ristoranti della East Coast spuntava un nuovo panino all’italiana: “Il padrino”, ovviamente. Nonostante la saga di Coppola abbia appena cinquant’anni, il panino che ne è derivato ha già fatto in tempo a diventare tradizione: nel 2021 Taste ci dedicò un articolo in cui era riportata una mezza dozzina di ricette del “vero padrino”, enunciate da altrettanti ristoratori che sostenevano di essere gli unici e soli custodi della tradizione. Una cosa simile successe all’inizio degli anni Duemila, quando mezza America si chiedeva che diavolo fosse il “gabagool”, l’affettato di cui era ghiottissimo Tony Soprano. Non lo capiva nessuno perché “gabagool” era una pronuncia ultradialettale della parola “capicolla”, inglese italoamericano per “capocollo”. In quel periodo erano talmente tanti i clienti che chiedevano il panino con il gabagool che alla fine i ristoranti furono costretti ad adattarsi e cambiare le diciture sui menu.
Il successo dei Soprano fu tale che oggi, nella miriade di tiktok e reel dedicati a tutte le possibili varianti e reinvenzioni dell’italian sandwich, è molto più facile sentire il creator usare la parola gabagool che capicolla. L’enunciazione degli ingredienti del panino con il più marcato possibile degli Italian New Jersey Accent è tra l’altro una parte fondamentale di tutti i contenuti sul tema che hanno riempito i feed dalla premiere di The Bear: mootz-ah-del (mozzarella), pruh-zhoot (prosciutto), proh-vuh-loh-nee (provolone), arugola (rucola), intervallati da frequenti maronn e mammami. È formula, ritualistica, liturgia, il cui climax è sempre lo stesso: il panino che viene prima incartato e poi spezzato a metà come l’ostia, il coltello che taglia nel mezzo esponendo alla videocamera l’agognatissima cross section, il centro del sandwich in cui si amalgamano tutti gli sforzi creativi del paninaro. La cross section è il motivo per il quale l’italian sandwich è un contenuto così efficace sui social: il rumore della carta in cui viene avvolto il panino attiva la risposta Asmr del sistema nervoso, ed è incredibilmente soddisfacente vedere che lo strabordante ripieno alla fine è stato compresso in una tavolozza compatta di colori che comprendono il bianco del formaggio, il verde della lattuga, il giallognolo dei sottaceti. E poi tutte le sfumature dei cold cuts (gli affettati), dal rosa pallido del tacchino all’arancio del pepperoni, passando per i rossi capocollo, soppressata e salame.
Tra l’altro, uno dei principali beneficiari di questo rinnovato successo dell’italian sandwich è un italiano: chi segue l’internet del cibo sa che senza tutti questi contenuti sarebbe stato difficile per L’antico vinaio di Tommaso Mazzanti diventare il fenomeno pop che è diventato anche negli Usa e aprire cinque locali solo a New York. E si torna all’inizio, a The Bear: cos’ha fatto Tommaso Mazzanti se non realizzare il sogno che Carmy Berzatto insegue ormai da tre stagioni.