Corriere della Sera, 24 luglio 2024
Intervista a Gabriella Pession
Gabriella Pession ne parla raggiante come la camicia arancione che indossa. È seduta nella stessa casa losangelina dove ha vissuto per tre anni in pieno Covid e dove è tornata per qualche settimana, in affitto, ritrovando i cristalli, il tappetino per lo yoga e il monopattino del figlio lasciati prima di trasferirsi definitivamente a Roma a giugno del 2022. Tutta Los Angeles (per non dire di Times Square a New York) è tappezzata della sua faccia assieme al cast protagonista di Those About to Die, serie kolossal diretta da Roland Emmerich uscita il 19 luglio su Prime Video. Lei veste i panni di Antonia, spietata patrizia; Anthony Hopkins è Vespasiano. Dice: «Se fosse successo quando avevo 20 anni, probabilmente mi sarei sentita arrivata. Invece oggi so gioire del traguardo, ma lo so mettere al suo posto. Il punto di equilibrio è la mia famiglia: mio marito, mio figlio, mia madre. Those About to Die è l’esperienza professionale più bella che ho vissuto finora, ma fa parte di un percorso. Occupa uno spazio, non tutto lo spazio».
Ci racconti subito di Anthony Hopkins.
«Appena è arrivato sul set, vestito da Vespasiano, ci ha messo in soggezione. Poiché ci aveva detto di chiamarlo Tony, mi sono fatta coraggio e gli ho chiesto se potevo fargli una foto per mio figlio. Ha risposto subito di sì, ma non avevo il cellulare. Dopo abbiamo girato tutto il giorno e la sera alle 18, quando pensavo se ne fosse dimenticato, mi ha ricordato lui della foto: io non avrei mai osato. Mi ha chiesto il nome di mio figlio e ha voluto fare pure un video».
Suo figlio si chiama Giulio. Chi lo ha scelto?
«Mio marito (l’attore irlandese Richard Flood, ndr). Giulio è nato a Dublino e per due giorni è rimasto senza nome. A me piaceva Naoisha, un eroe celtico. Però anche Giulio l’ho trovato subito bellissimo. E poi è un nome romano e Roma è la città dove abbiamo scelto di vivere».
E dove avete comprato casa.
«Sì, nel quartiere Parioli-Pinciano. Io amo tutta la zona di piazza San Cosimato, del Gianicolo, ma abbiamo scelto una casa pensando a nostro figlio: è vicina alla sua scuola internazionale e al tennis».
È un campioncino?
«Lo chiamano Micro Jannick. Ha 10 anni e i capelli rossi come Sinner. Siamo appena stati per una settimana all’accademia di Riccardo Piatti. A Los Angeles tramite un contatto con la Sharapova chiederò a lei da chi posso farlo allenare mentre siamo qui».
È davvero così bravo?
«Finché avrà lo stesso sorriso di Alcaraz quando gioca lo sosterrò, anche se comincia già a richiedere molte energie: si allena cinque giorni alla settimana».
Lo ha portato a Wimbledon?
«Certo! Ci siamo appena stati con i miei suoceri, mentre mio marito ne ha approfittato per salutare i suoi amici. Abbiamo visto Kalinskaja con Rybakina, Djokovic con Rune, Fritz con Zverev. Nasco atleta, pattinatrice su ghiaccio: capisco la passione di mio figlio».
Lei però aveva dovuto smettere per un incidente ai legamenti del piede.
«Davvero è stato quello? Io fino a 14 anni ho pattinato con gioia, già a 9 anni sognavo di vincere le Olimpiadi. Poi quella gioia è scomparsa e non aveva più senso insistere».
Per il pattinaggio ha vissuto anche a San Pietroburgo.
«Ci sono andata per due estati, ad allenarmi con Aleksej Mišin. Eravamo sei ragazzine, avevamo vinto una borsa di studio. Ricordo il viaggio dall’aeroporto su questo pullmino che correva come un pazzo. Poi l’autista fermò di botto e pensai: come sono belle le case in Russia! Eravamo davanti all’Ermitage...».
Ha vissuto pure in Australia.
«Ci sono andata cinque volte e ci ho abitato per un anno e mezzo di fila. Avevo appena finito il liceo: ero partita per raggiungere un fidanzatino, e alla fine mi ero innamorata di mia suocera: per lei ero la figlia che non aveva avuto. Stavamo a Brisbane, prendevo un autobus e andavo in spiaggia, facevo lunghe camminate, dipingevo in mezzo al nulla. Però la sensazione di lontananza dall’Europa era troppo forte: lì, davvero, ti senti distante da tutto».
Ha ancora un appartamento a New York?
«Sì, a Central Park South, ma ormai l’ho affittato. Per me New York è una coccola, è come mangiare un marron glacé: posso vedere tutti i musical che voglio, andare per musei. È l’opposto di Los Angeles, che è un non luogo».
Però ci ha vissuto per tre anni.
«Sì, mentre Richard stava lavorando a Grey’s Anatomy. Los Angeles può essere alienante, la vita non la incontri, devi crearla: organizzi il barbecue con gli amici, fai meditazione, puoi anche restare tutto il giorno a guardare la tua palma, dipende da te. In quel periodo desideravo moltissimo lavorare nel mercato internazionale e non è successo. Curiosamente, la proposta per Those About to Die mi è arrivata quando ci eravamo trasferiti in Italia e avevo abbandonato il sogno americano: ero a Roma quando ho fatto il provino con Emmerich».
Suo figlio si è accorto del successo?
«Ieri mi ha chiamata gridando: “Mamma, sei in tv!”. Era appena passato un trailer della serie. È bizzarra questa cosa, ma me la godo con il giusto distacco emotivo: il nostro è un lavoro molto instabile».
Cosa le ha tolto e cosa le ha dato?
Amore irlandese
Con mio marito non c’è competizione sul lavoro, in passato mi era successo. Ci siamo sposati a Dublino,
la festa di matrimonio
è durata tre giorni
«Mi ha tolto tanta serenità: non sai mai dove sarai domani, se andrà bene o male, la meritocrazia non esiste, non è come il medico che poi diventa primario dopo un percorso lineare. Qui l’unica linea di continuità ce l’hai con te stesso. La sola cosa che conta è lo spazio tra l’Azione e lo Stop, quando vai in scena, ma è minima rispetto alle migliaia di ore che aspetti appesa».
Ci saranno anche dei pregi, spero.
«Per contro, questo è un lavoro che ti sorprende sempre. Ho avuto sul set giraffe, un elefante... Devi saper prendere il meglio. Se mi avessero detto vent’anni fa che avrei recitato accanto a Anthony Hopkins non ci avrei creduto: anche questo fa parte del bello».
In cos’altro l’ha colpita, Hopkins, oltre alla gentilezza verso suo figlio?
«Per l’empatia, di cui l’aneddoto familiare è un piccolo esempio. Quando recita è meraviglioso perché davvero resta in ascolto e non è scontato: ho lavorato con tanti attori americani molto concentrati sulla loro performance, su come dicono la battuta».
Tra non molto la vedremo anche nelle serie «Tell me lies» con Tom Ellis e «Montecristo» con Sam Claflin e Jeremy Irons.
«Credo di essere la donna più invidiata del pianeta! Tom Ellis ha un grande senso dell’umorismo, molto british. Di Sam mi ha colpito la grande serietà: appena sono arrivata sul set l’ho visto emaciatissimo, molto provato, poi allo stop si è illuminato tutto, è tornato sé stesso».
Si monterà la testa?
«Il mio punto di forza è al 100 per 100 la mia famiglia, dove ego e vanità non hanno spazio».
Non c’è mai stata competizione con suo marito?
«Zero, mentre in passato ho avuto relazioni dove questo elemento poteva esserci. Invece lui è il mio fan numero uno, vediamo le nostre carriere come parte di un’unità e questa è una cosa bella: ci supportiamo a vicenda».
Dove vi siete sposati?
«A Dublino: lì i matrimoni durano tre giorni! Il primo si fa la cena, il secondo si celebra il matrimonio, il terzo si fa un barbecue. Tre giorni di festa nei quali si celebra la vitalità, ci si diverte. Una volta all’anno con nostro figlio facciamo un viaggio per scoprire un nuovo pezzetto di Irlanda che non conosciamo».
Vorrebbe lavorare di nuovo con suo marito?
«Ci siamo conosciuti sul set di Crossing Lines e Giulietto lo abbiamo concepito tre settimane dopo: l’inconscio ha lavorato bene per noi. Adesso lui ha scritto una serie che si chiama Sì chef e io dovrei interpretare sua moglie».
Anche lei scrive.
«Sì, sto scrivendo la mia prima serie tv come coautrice. È la storia di un ritorno a casa, alle proprie radici, di una donna di grande successo che si scoprirà genitore. È un inno alle piccole cose. In fondo quella donna sarei potuta essere io se non avessi incontrato mio marito».
Sua madre è una figura importante nella sua vita.
«È una donna intelligentissima, studia greco antico, letteratura russa, ha una vitalità incredibile. Ha preso la laurea con 110 e lode sul Fantasma dell’opera e poi ha anche mandato la tesi a Andrew Lloyd Webber, che avevamo conosciuto insieme a New York alle prove di Evita».
Con quale attore si è emozionata di più?
«Con nessuno in particolare. Ma mi sono emozionata quando ho incontrato Rafael Nadal, grazie al mio amico Max Giusti: ho portato Giulio a conoscerlo in Spagna per un suo compleanno. Dal punto di vista artistico direi, invece, Michael Jackson. Quando venne a Milano mia mamma mi accompagnò a fare il tour del backstage con la sua band. Sono perfino stata sul palco dietro il microfono dal quale avrebbe poi cantato».
Con chi le piacerebbe lavorare adesso?
«Il mio sogno sarebbe stato Philip Seymour Hoffman, che non c’è più. Con Anthony Hopkins ho avuto la fortuna di farlo. Forse ora direi Cillian Murphy: è un genio di attore, molto professionale».
Ed è irlandese, come suo marito.
«Non conoscono il divismo, sono bravissimi. Gli irlandesi tendono per carattere a minimizzare. Pure Bono lo lasciano in pace».
Michael Jackson
L’emozione artistica più forte? Quando Michael Jackson venne a Milano, mia madre mi accompagnò a fare
il tour del backstage
con la sua band
Sogna l’Oscar?
«L’altro giorno ho pianto in aereo devastata da Past Lives, che non lo ha vinto, ma secondo me ne vale 50. Questo per dire che oggi il mio Oscar è continuare a divertirmi facendo il mio mestiere».