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 2024  luglio 24 Mercoledì calendario

Intervista a Carlo Carabba

Carlo Carabba, in queste pagine Antonio Franchini ha indicato lei come uno dei migliori editor italiani, quasi un erede.
«Con Antonio abbiamo condiviso anni di lavoro in Mondadori, quando sono entrato ero giovane e lui mi ha dato fiducia. Gli sono grato».
Esiste un confine tra ciò che è «letteratura» e quello che non lo è?
«Intendiamoci: non è che Raffaella Carrà e Mozart siano la stessa cosa, però non amo chi erige steccati». 
Molti scrittori, però, amano darsi «patenti» autoriali. 
«Un esempio: nel 2020 noi di HarperCollins abbiamo pubblicato Per il mio bene, autobiografia di Ema Stokholma, che è conduttrice radio e tv. Il libro non è partito bene, perché sull’autrice pesavano pregiudizi, ma alla fine è andato benissimo e ha anche vinto il premio Bancarella. Quello di Ema è un libro difficile perché racconta di una madre violenta, la sua. Credo che prima di tutto vadano lette con attenzione le opere».
Lei è scrittore ed editor. Dopo una lunga carriera nella Mondadori, oggi, oltre al lavoro nell’editoria, è consulente di Netflix. Trasfigurata nelle serie televisive, la letteratura sta vivendo una nuova stagione?
«Questo è un percorso interessante perché da quando lavoro per Netflix noto che mi viene richiesto un ampio ventaglio di generi, dal romance al crime. Vuol dire che la letteratura è viva, che ci si cimenta in diversi registri. Bene».
Aldo Grasso ha scritto che alcune serie tv oggi possono dirsi vera letteratura. 
«Concordo. Però il finale di Game Of Thrones, tra i prodotti migliori, ha deluso molti anche perché l’autore dei libri, Martin, non ha ancora terminato di scrivere i due volumi conclusivi. Quindi è vero che alcune serie sono letterarie, ma è anche vero che il libro continua ad avere una sua autonomia e un suo peso».
Ma la letteratura, secondo lei, può fare a meno del libro come oggetto fisico? 
«Penso di sì. Una buona serie tv è letteratura. Secondo tanti esperti, anche alcuni videogiochi lo sono». 
Come si riconoscono un grande scrittore o una grande scrittrice? 
«Una volta Alessandro Piperno ha detto: “Per essere grandi, bisogna donarsi”, cioè metterci tutto, fino in fondo, come un torero che affronta il toro. Penso allora a uno scrittore come Franchini, che nel suo romanzo Il fuoco che ti porti dentro ha messo a nudo sé stesso attraverso la figura della madre. Ma penso anche ad autrici come Veronica Raimo e Claudia Durastanti». 
Tauromachia letteraria, insomma. Eppure, sempre citando Franchini, le classifiche sono piene di «altro». 
«C’è anche tanta autobiografia senza tauromachia». 
Tante variazioni sul tema dell’autofiction? 
«Io credo che abbiamo un problema con il romanzo. Ad un certo punto si è deciso che la qualità romanzesca del romanzo fosse volgare. Divagazioni narrative, descrizioni di amori o di delitti. Quindi la storia recente è quella di un insistente depotenziamento del romanzo, quasi un insistente rastremare letterario. Ecco allora che la qualità romanzesca del romanzo si è trasferita nei generi. Così oggi abbiamo gialli, crime, romance di ottima fattura e che la gente legge molto volentieri. Ma questa forza del romanzo borghese si incanala benissimo anche nell’autobiografia». 
Oggi c’è una grande vivacità anche nelle case editrici più piccole, che sanno essere «generaliste ma di qualità». Lei è d’accordo? 
«Secondo me la formula editoriale perfetta è quella generalista, che si muove tra romanzo e saggio con intelligenza. Quello che contesto è l’equazione bassa qualità uguale successo commerciale. Un esempio: i libri di Corrado Augias sono di qualità ma si vendono benissimo». 
Quanto conta il coraggio in un editor? 
«Conta quando si accompagna a uno sguardo insieme distaccato e partecipe. Io non devo pubblicare il “mio” libro ma devo riconoscere il valore di un libro altrui, immaginarne una versione ideale e lavorarci a lungo affinché questo valore risalti. Il mio lavoro non è sfrondare: con questo criterio Guerra e Pace dovrebbe avere almeno trecento pagine in meno. Non è cambiare, perché il peso dell’editing eccessivo si vede». 
Conta la lungimiranza? 
«Molto. Quando Alessandro D’Avenia, dopo il successo di Bianca come il latte, rossa come il sangue e di altri due romanzi venne da noi con L’arte di essere fragili, un libro su Leopardi, subito ci fu una reazione scettica. Molti avrebbero preferito farlo continuare nella narrativa. Io credetti in lui ed ebbi ragione». 
Cambia anche il metodo di scouting. 
«Io notai Zerocalcare quando ancora non era famoso leggendo i suoi post su Facebook. Oggi un editor deve essere attento a ogni canale, anche i social. Non basta più la visione romantica del manoscritto ricevuto per caso. Leggere quello che si scrive sui social non è una bestemmia». 
Quanti manoscritti riceve Carlo Carabba? 
«Circa venti alla settimana. Una enormità». 
Vogliamo dire che non tutte le case editrici hanno la possibilità di leggere la mole di manoscritti? 
«Ci vorrebbe un ufficio apposta ma le risorse non ci sono. Spesso si vede l’editor come un valutatore di manoscritti, ma non è questo il nostro compito. E allora come avviene il contatto? Semplice: spesso è casuale. Magari un giorno sono meno stanco e meglio disposto e dunque leggerò con attenzione, un altro giorno invece sarò meno attento e magari mi sfuggirà un potenziale best seller». 
Lei, dicevamo, è anche scrittore e con il romanzo Come un giovane uomo ha corso per lo Strega nel 2018. Che ricordo ha? 
«Ricordo che da una parte gareggiavo io, ma dall’altra correva anche un mio autore, Carlo D’Amicis. Sinceramente, facevo il tifo per lui. Una volta senza accorgermene in una intervista feci il gesto delle corna in diretta tv: scongiuravo la mia vittoria. Infatti nella selezione andò avanti Carlo e meritatamente». 
Un’autrice o un autore sopravvalutati secondo lei? 
«Posso dirne due?». 
Prego. 
«Franzen e Flaubert. Perché trovo insopportabile quel bullizzare, quel trattare male i loro personaggi, quasi ergendosi loro stessi a personaggi moralmente e intellettualmente superiori. Flaubert, in particolare, nonostante sia passato alla storia per la frase “Madame Bovary c’est moi”, peraltro di dubbia attribuzione, in tutto il libro non nasconde il suo disprezzo per Emma». 
Invece un autore sottovalutato? 
«Margherita Oggero. Credo che sia molto di più di come spesso ci viene presentata». 
Mai commesso errori? 
«Forse avrei potuto lavorare meglio sui racconti di Paolo Sorrentino, perché penso che il suo Gli aspetti irrilevanti sia un libro bellissimo. Ma ho commesso diversi errori, dall’impostazione alla qualità della carta». 
Un libro (altrui) di cui è orgoglioso? 
«Ce ne sono stati tanti, ma cito Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini, un’opera originale che mescola narrazione, attualità, società». 
L’Intelligenza artificiale cambierà la letteratura? 
«Una volta sentii dire dall’economista Lucrezia Reichlin che le previsioni che vanno oltre tre mesi sono da buttare nel lavandino. Non so se l’Intelligenza artificiale ci cambierà, quello che so è che l’eBook, secondo le previsioni, avrebbe dovuto uccidere il libro di carta ma così non è stato, anzi». 
Ci sarà mai un ultimo libro nella storia umana? 
«Non fino a quando esisterà l’homo sapiens che, secondo le teorie scientifiche più recenti, è sopravvissuto grazie all’inclinazione al rischio. E il racconto è una forma di inclinazione alla conoscenza, quindi al rischio stesso».
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